Perché “a me mi” non si dice

“A me mi piace la pizza.”

Quanto riempie la bocca una frase del genere, sembra quasi di mangiarla, la pizza, mentre la pronunci.

Eppure, ricordiamo tutti, le maestre delle elementari di solito hanno una crisi isterica di fronte a frasi simili e ci minacciano, col dito puntato: “A me mi non si dice!”

Talvolta alcuni adulti hanno ancora incubi in merito e basta che qualche sprovveduto usi questa espressione per rivivere tutte le fasi del trauma. C’è chi preferirebbe mangiarsi la lingua piuttosto che dire “a me mi”.

Quello che le maestre raramente ci spiegano è il motivo per cui non si dice. Sembra complicato, non è colpa loro, ma nessuna scelta linguistica dovrebbe essere un tabu. “Chi usa a me mi diventa cieco.”

No, non si tratta di una questione di illecito o vergogna, solo di una tendenza tipica dell’italiano parlato che a volte sfugge un po’ di mano.

L’ordine naturale della lingua italiana è chiamato in gergo SVO, ossia soggetto-verbo-oggetto, una triade che necessita di essere consequenziale come calcio-birra-figa.

Violare questo ordine significa talvolta non essere chiari, ad esempio “Gianmaria bacia Samantha” non è lo stesso di “Samantha bacia Gianmaria”. Cambiare di posto soggetto e oggetto non comunica lo stesso messaggio. Se diamo per scontato che il bacio parta da Gianmaria, non è detto che Samantha risponda e, se li invertiamo, non possiamo essere certi che lei sia consenziente. Insomma, l’ordine della lingua italiana ci serve per sapere se dobbiamo chiamare la polizia o meno.

Tornando al punto, però, ci sono fenomeni, soprattutto del parlato, che minano a quest’ordine. Uno di questi è la dislocazione a sinistra.

So che suona pretenzioso. Prima della grammatica, a me evoca un’operazione ortopedica, o lo stanziamento di truppe militari. E non siamo tanto distanti dalla realtà dei fatti: pensate alla frase come a un campo di battaglia, la dislocazione a sinistra è lo schieramento delle truppe dalla parte sbagliata dell’oggetto, il fronte occidentale, per intenderci.

Ora, ci sono casi in cui l’occidente sembra il miglior posto in cui dislocare le proprie truppe (e ve le spiegherò), altre invece in cui questa scelta è solo uno spreco di vite umane, nonché di risorse economiche.

Ok, basta con le metafore guerresche, anche perché la battaglia non è proprio nelle mie corde, sono scarsa persino a Risiko.

“A me mi piace la pizza” non funziona, perché quel “mi” è pleonastico. “Pleonastico” è un’altra parola difficile per parlare di qualcosa che non c’entra, anzi, appesantisce la frase. È inutile perché “mi” significa “a me” e, anche per i più smemorati, è chiaro sia quello il punto della frase. La forma più scorrevole è “Mi piace la pizza”, senza intoppi, senza incidenti.

Un altro esempio, grande classico, la relazione sul libro letto: “Questo libro lo consiglierei a tutti i miei coetanei”. Tralasciando per un attimo il contenuto discutibile (per forza lo consigli a dei sedicenni, se l’ho assegnato a te, significa che è adatto), il punto qui è quel “lo” pleonastico che sta per l’appena citato “libro”, quindi non serve.

Esiste una deroga a questa norma, che è una specie di licenza poetica e serve per sottolineare un sintagma preciso della tua frase. Es: “Il coltello a serramanico lo porta sempre in tasca”. “Lo” è sempre pleonastico, ma almeno qui stiamo parlando di un coltello, non di un libro, la dislocazione serve per sottolineare la presenza di un’arma e dunque è prudente.

Quindi qual è la soluzione?

Sempre la stessa, ossia, cerchiamo di capire quel che stiamo dicendo. Le regole di grammatica non sono solo noiose, ma ci servono per essere efficaci. Dunque proviamo, facciamo pure errori, ma con la consapevolezza di ciò che stiamo facendo. 

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