Un romantico a Milano

“Prof, ma perché facciamo ancora i Promessi Sposi?”

“Li abbiamo già fatti alle medie!”

“Li abbiamo letti al biennio.”

“Ma non si può leggere un altro libro?”

Tutte domande sensate e poi, devo ammetterlo, non vado pazza neanch’io, né per questo romanzo, né per il paternalismo di Manzoni – che mi fa venire il latte alle ginocchia fin dal ’97.

Eppure continuo a sostenere che sia da leggere, o per lo meno se ne debba parlare. No, non sono asservita ai programmi scolastici, semplicemente riconosco l’importanza di un’opera del genere, anche solo come uno scheletro di tirannosauro – che mai ci metteremmo in casa, perché è pacchiano e ingombrante, ma di cui nessuno osa mettere in dubbio il valore.

Ricominciamo, dunque, perché propinare in classe sempre “I Promessi Sposi”?

Prima di tutto perché è il primo romanzo della letteratura italiana, dunque non possiamo ignorare né lui, né il suo autore.

È dal 1200 o giù di lì che in Italia si fa letteratura non in latino e si discute, in un mondo di tanti volgari, su quale sia la lingua più adatta per scrivere libri. Su una cosa però tutti gli autori (e i pochi fruitori esistenti) sono d’accordo: se proprio devi scrivere, l’unico genere per cui ne vale la pena è la poesia.

La poesia è l’unico genere alto, da zero a dieci è undici. È una modalità d’elite, è una roba fica che solo la gente colta può produrre o leggere, ci vogliono basi solide, mica possiamo permettere a tutti questo privilegio.

Dunque, Manzoni vive e scrive in un’epoca, l’800, in cui la poesia è una figata, mentre il resto è merda. Detto proprio basic.

Manzoni scrive poesia, certo, abbiamo anche parlato del suo “Adelchi” e della sventurata Ermengarda. Però non è soddisfatto, lui è uno che vuole sempre “altro”. E poi sarà la sua conversione al cristianesimo, vai sapere… fatto sta che lui vorrebbe produrre qualcosa di più inclusivo, che gli permetta di fare la differenza e di ampliare il numero dei lettori. Solo che non sa come fare.

Poi, mentre è a Parigi e legge e si informa, si imbatte in un romanzo straniero. Il suo titolo è “Ivanoe” e l’autore e Walter Scott (seppur come genere minore, il romanzo in Europa si diffonde almeno un secolo prima rispetto all’Italia). Da quel momento Ale capisce cosa fare. “Ivanoe” è un romanzo storico: ecco l’idea giusta per il nostro scrittore.

Il romanzo storico è un genere in cui la Storia non è solo sfondo, ma in un certo senso anche protagonista e in cui vengono mescolate realtà e invenzione: le vicende storiche sono reali, mentre i personaggi spesso sono inventati, ma si misurano con i fatti descritti nei nostri libri scolastici.

Così a Manzoni comincia a frullare in testa un’idea geniale e, per la sua trama inedita, sceglie come protagonisti non dei fighi spaziali, belli, ricchi e con la casa di proprietà a Ibiza, ma preferisce due poveracci, tessitori, schiacciati dai potenti. Sempre lo spirito cristiano, del resto Gesù ripeteva spesso: “gli ultimi saranno i primi”. E allora, ok, saranno gli ultimi, gli umili i protagonisti di questo romanzo.

Queste scelte ovviamente non piacciono a nessuno, soprattutto a quelli che fanno della cultura uno status sociale. Già l’abbiamo detto: gli ultimi sono gli ultimi e il romanzo è un genere da poracci. Per di più Manzoni non si vuole rivolgere ai soliti accademici che da secoli detengono il primato sulle lettere – e guai a chi glielo tocca –, ma vuole parlare a tutti, vuole intrattenerli.

“Intrattenimento”: una parola su cui oggi si costruiscono imperi, ma che ai tempi era incomprensibile, è la stessa parola alla base dei romanzi contemporanei, delle saghe, dei film e delle serie tv che, per il tempo della loro fruizione, ci permettono di allontanarci dalle nostre vite schife e di vivere una vita diversa.

Ecco, per tutto questo, per Netflix e Amazon prime video, dobbiamo dire grazie a Manzoni che ha insistito.

Per citare i Baustelle, lui è “un romantico a Milano” che se ne sbatte dei critici, di quelli che lo osteggiano e, pure se gli sparlano dietro, lui persevera nel suo proposito.

Scrive una lettera (che poi è un po’ il suo manifesto letterario) in cui dice che la letteratura deve avere l’utile per scopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo, che significa in sostanza che, al di là delle fregnacce dei poeti, ciò che conta veramente è raccontare robe vere, che la gente capisca, tutti, donne comprese (il che in una società misogina non è certo easy) e che debba coinvolgere anche chi di solito è escluso.

Non potete neanche immaginare il casino che crea una scelta del genere. Eppure Manzoni va avanti e lavora un sacco al suo romanzo.

Lui vive nell’800, ma lo ambienta nel ‘600. Parla male della dominazione spagnola di allora, perché non può dire nulla di negativo su quella austriaca dei suoi tempi. E poi lavora sulla lingua e sullo stile. La prima versione del suo romanzo è inutilmente lunga, piena di digressioni, insomma, non arriva al punto. Così lui lima e taglia un po’, ma il romanzo ancora non funziona, perché, come si dice in gergo, la lingua è artificiale: un mix di toscano letterario, termini francesi e lombardi.

Così non va. Se il romanzo deve essere vero, lo deve essere anche la lingua: non si può leggere una roba che non corrisponde a ciò che parliamo veramente.

E allora, ve l’ho già detto, non c’era una lingua unica per l’Italia. La lingua non si può imporre, anche quando il re gli chiederà una relazione ufficiale per un idioma che vada bene per il nuovo Regno dell’Italia unita, lui dirà la sua, ma di fatto nessuno lo ascolterà (perché la lingua la fanno i parlanti, non un’imposizione dall’alto).

Dunque Manzoni, per il suo romanzo che deve essere per tutti e verosimile, deve trovare l’idioma che, più di altri, corrisponda alla realtà dei parlanti italiani.

Così va a Firenze per fare quella cosa che i critici chiamano “risciacquare i panni in Arno”, espressione che da sempre mi fa ridere, perché immagino Manzoni che lava le mutande al fiume. Eppure si tratta di un’operazione seria: stando altrove impara la parlata viva dei fiorentini, che è la cosa più simile a una lingua italiana comprensibile. Che è un po’ come quando ci mandano in un college straniero a imparare l’inglese. Che ci sembra un sopruso, ma alla fine l’inglese lo impariamo davvero.

Così capita che Manzoni non solo apprende questa lingua lontana da lui, ma alla fine la usa per il suo romanzo e si fa capire così forte e chiaro che ancora oggi lo leggiamo e lo inseriamo nel programma scolastico.

E allora non diamolo per scontato questo autore, perché lui, per quanto ora sia datato, ha fatto la rivoluzione. E se vogliamo capire perché ci piace “Stranger things” o “Harry Potter” o anche solo “Cucine da incubo”, lo dobbiamo a lui che ha rivoluzionato il modo di avere a che fare con una storia.

Una replica a “Un romantico a Milano”

  1. Avatar Marina Michelerio
    Marina Michelerio

    Bello!!!!

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