La pop depre

Ci si interroga spesso su cosa sia letteratura o meno.

“I letterati sono i poeti importanti”, mi rispondono in classe. “Sono i poeti morti”, dicono in coro.

Okay, ma chi decide il loro valore?

Non credo che basti la morte a fare di qualcuno un grande, anche se, amaramente lo dico, a volte aiuta.

C’è chi sostiene che letteratura sia tutto ciò che sopravvive al tempo. Ad esempio, se ancora oggi leggiamo un testo del Duecento un motivo ci sarà pure.

Va bene. Credo però che ci sia anche una letteratura del tempo in cui ci troviamo. E per me corrisponde a qualcosa che mi lascia a bocca aperta.

Non sono una che si stupisce facilmente e ricerco di continuo l’effetto “wow”. Ho un tatuaggio sulla spalla che dice “altro!”, perché niente mi basta mai.

Eppure, guardando e ascoltando soltanto, senza inutili pregiudizi, si può trovare dignità letteraria, anche dove uno non se l’aspetterebbe, anche al Festival di Sanremo, per esempio.

Lei è Angelina Mango e ha vinto l’edizione di quest’anno (ha pure perso la custodia del premio e questo già basterebbe per la mia benevolenza – amo chi non è perfetto).

Comunque sia, siamo qui per un’analisi, seria, da critici letterari, della sua canzone in gara. E okay, l’ha scritta con Madame e Dardust, ma il fatto che Angelina ci metta la faccia e le corde vocali la rende sufficientemente di sua proprietà.

Cominciamo con il fatto che il pezzo si chiama “La noia”, ma potrebbe tranquillamente essere “La depre”: ripetuta con l’uso di un’anafora ossessiva, del resto, la parola non diventa altro che una “scatola di suono”, come diceva Kandinskij, un contenitore in cui io posso mettere quel che mi pare.

Lei sostiene che la canzone parli di come i momenti brutti rendano quelli belli ancora più belli e significativi. E ci sta, infatti l’interpretazione noia = depressione è tutta mia, è il patto narrativo che permette questo, il miracolo per cui ogni fruitore trova in un testo un po’ di se stesso.

Comunque, bando agli indugi. Da dove viene quest’idea?

Il bridge è inconfutabile: “Muoio senza morire | In questi giorni usati |Vivo senza soffrire” E poi la variazione: “Muoio perché morire | rende i giorni più umani | vivo perché soffrire | fa le gioie più grandi.”

Lei che arriva sul palco con un’aria spavalda da “Io so’ Rosa Ricci e tu chi cazzo sei?” e poi ci racconta che la fatica più grande è non sentire niente. Niente di niente. Né le il bello, né il brutto: non avere più paura, neanche di morire, rende i giorni piatti e senza senso.

Il dolore è una delle cose che ci fa sentire esseri umani, morire è ciò che tutti diamo per certo, ma no, Angelina ci racconta che a volte non si muore, si resta lì nel letto come piante che diventano a mano a mano sempre più gialle, ma inaspettatamente sopravvivono ancora, chissà poi perché.

Questo è confermato anche dall’espressione: “Se rischio di inciampare almeno fermo la noia” (cosa che lei ha pure fatto durante l’esibizione). Rischiare di sbagliare e perfino di farsi male potrebbe scacciare la monotonia di quell’unico sentimento monocorde che non se ne va più.

Questa però non è una canzone che incita l’autocommiserazione e nemmeno affranca comportamenti malsani.

La soluzione per Angelina Mango?

Una festa per combattere la noia/depre: “Non ci resta che ridere in queste notti bruciate”.

Poi, se uno proprio si impunta su questo testo, ci può anche trovare dei riferimenti alti: “muoio senza morire” che poi è un grande “wow” nella canzone, è un poliptoto, una figura retorica antica che consiste nel ripetere, a breve distanza, due parole che hanno la stessa radice, ma un caso o flessione diversa, a seconda delle lingue.

È una delle preferite da Dante, per citarne uno così: “Cred’ io ch’ei credette ch’io credesse”, oppure del grande Petrarca, “di me medesmo meco mi vergogno”, di quel matto di Torquato Tasso, “anzi la pugna de la pugna i patti” e pure il titolo di una raccolta di fiabe in dialetto napoletano: “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile.

Inoltre, non so se sia solo una fissazione, ma qui vedo anche un po’ di Pascoli.

Non c’è solo il rimando più evidente, ovvero il fatto che Giovanni e Angelina erano più o meno coetanei quando hanno perso tragicamente il padre, piuttosto i riferimenti simbolici e cristiani, apparentemente senza senso.

Per Angelina: “Una corona di spine sarà il dress-code per la mia festa”, “Eppure sto una pasqua”, “Non c’è croce più grande”.

Per Pascoli invece: “Ritornava una rondine al tetto: | l’uccisero: cadde tra spini”,  “Ora è là come in croce, | che tende quel verme a quel cielo lontano”, “Anche un uomo tornava al suo nido: | l’uccisero: disse: Perdono”.

Okay, non so se Angelina sia credente o meno, ma per quanto riguarda Pascoli pare proprio di no. I suoi rimandi cristiani, sono legati più che altro alla figura di Cristo in sé, storica o fedele che sia, ma immagine universale di un innocente che viene ucciso.

Anche Angelina è innocente, così come suo padre, ma questo non li esime da un destino tremendo. “Non c’è croce più grande” e “sto una Pasqua” sono espressioni idiomatiche, ossia cosa che si dicono così, più per spirito di emulazione collettiva che per il contenuto che veicolano. Però ci sono frasi altrettanto idiomatiche è altrettanto affini con cui si possono sostituire, quindi scelta deve avere pur qualche valore.  

Insomma, forse quando è iniziato il festival io non avrei scommesso un euro su questa ragazza (nonostante i pronostici che, a quanto pare, erano favorevoli, ma io non li ho sentiti e con la statistica sono pessima), ma il punto è che in lei, retoricamente o meno, vedo le mie studentesse che, appena dopo il lockdown, a scuola con la mascherina, si mettevano in fila per andare in bagno a piangere.

E quante volte avrei voluto piangere con loro, ma non l’ho mai fatto. I professori non piangono.

Grazie Angelina per aver ricordato, a me e a tutti noi, che, come diceva il grande, “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”

“Total!”

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