Spesso parliamo di figure retoriche (magari più a scuola), più probabilmente in poesia. Sappiamo tutti cosa si intende più o meno: metafora… sì, qualcosa del genere. Ed è okay.
Quello che non tutti sanno è che le figure retoriche sono artifici della lingua che ci aiutano a rendere i discorsi più interessanti. E le usiamo tutti i giorni senza rendercene conto.
Per dirne una, l’espressione comune “la gamba del tavolo” è una metafora catacretica (così si chiama: una roba semplice con un nome complicato, ma tant’è).
Si tratta di un uso figurato: la gamba in questione non è una vera gamba, ma ci assomiglia, quindi le sue caratteristiche vengono trasferite sul legno che sostiene il tavolo.
Oggi però non voglio parlarvi di questo, non del tutto almeno.

La retorica è una disciplina antica che nasce per convincere, persuadere qualcuno.
È la stessa che, affinata, aiuta gli avvocati nei tribunali, quella dei saggi, delle tesi di laurea, dei discorsi per convincere la mamma a comprarci il motorino. Insomma, la retorica ha un sacco di impieghi, per la maggior parte utili o nobili, ma talvolta, se applicata sconsideratamente, può anche ammazzare.
E non mi riferisco a Cicerone in tribunale che, con un’orazione passata alla storia, denuncia pubblicamente le porcherie di Catilina. Okay, Catilina è stato ucciso, ma la repubblica romana era in piena guerra civile e lui voleva far fuori i due consoli in carica.
Questo è un caso estremo e non sempre l’uso della retorica porta ad un omicidio vero e proprio, per fortuna. È anche vero però che sono tanti i modi in cui si può morire, anche in senso figurato appunto.
Qualche settimana fa Luciana Littizzetto, nella sua consueta letterina a “Che tempo che fa?” ha rivolto un appello a Elon Musk e Mark Zuckerberg perché fermino in qualche modo l’odio sui social.
Ho apprezzato molto, come sempre, anche se pure Lucianina è una parecchio odiata dagli odiatori. Forse però, per fermare l’onda, c’è qualche altra crepa in più che si può tappare.
Non si tratta dei “muori” e “troia” che compaiono spesso sui profili di gente ignara o meno, nemmeno delle invettive sgrammaticate di troll e utenti anonimi: loro sono solo un esercito incompetente che fa molto male.
Sono i seminatori di discordia, specie quelli intelligenti, ad essere il vero pericolo. Perché sanno quel che fanno e le loro doti espositive ne sono la prova.
Dante puniva in malo modo, sia quelli che mettono zizzania, sia coloro che fanno un uso perverso della loro intelligenza. Ma io non sono né saldamente cristiana, né tantomeno un giudice infernale, quindi mi limiterò a raccontare di come la retorica, nelle mani sbagliate, può essere usata come un coltello.
Cominciamo con l’esempio, nonché il procedimento più facile: l’ironia. Ma quanto è bella di per sé?
L’ironia consiste nel fare un’affermazione intendendo l’opposto. Mi piace sempre molto chi possiede questo spirito brillante, chi capisce al volo che non sei serio, quando stai dicendo quella cosa tanto buffa o assurda in una maniera così posata. L’ironia condivisa è segno di intesa.
L’ironia, però, anche se così amichevole e intima tra gli intimi, può essere dannosa se utilizzata per colpire qualcuno.
Pensate se in classe mi riferissi ad un alunno scarso dicendo qualcosa del tipo: “Eh sì, tu sarai promosso di sicuro”, facendogli intendere, con il tono, che invece la mia intenzione è quella di bocciarlo.
Pensate al commento alla foto di una persona in carne del tipo: “Madonna, che grissino”, seguite da emoticon di risatine varie.
Messa così l’ironia non fa più tanto ridere. O, per meglio dire, non fa ridere proprio tutti.
Oltretutto è un procedimento subdolo perché, se anche Facebook o Instagram avessero voglia di bannare l’utente perfido, l’algoritmo di sicuro non percepirebbe la sottigliezza del procedimento retorico.
Un’altra figura retorica pericolosa è l’allusione che serve per lasciare intendere qualcosa senza nominarlo. Anche questa necessita complicità, ossia per l’interlocutore deve essere abbastanza chiaro ciò a cui ci stiamo velatamente riferendo.
“a gente che per li sepolcri giace | potrebbesi veder? Già son levati | tutt’i coperchi, e nessun guardia face.”
Senza addentrarci troppo, chi sta cercando Dante tra le tombe? Lui non lo nomina, ma Virgilio, che ormai lo conosce bene, sa che il poeta vuole vedere Farinata degli Uberti, già precedentemente nominato.
Be’, messa già così, l’allusione sembra una roba carina, una specie di codice segreto tra amichetti del cuore.
Provate però a immaginare quando il codice è universale e ad usarla è un tuo nemico.
Se sono un giornalista e voglio dimostrare che qualcuno è un ladro, ma non ho le prove e neanche voglio essere accusato di diffamazione, dunque posso descriverlo come un tipo che viene da una famiglia disgraziata, molto povera magari, con dei precedenti penali pendenti, ad esempio. Cosa che, per altro, può essere pure vera, ma non fa dell’individuo un ladro.
I fatti oggettivi resteranno tali, ma l’allusione nella descrizione racconta più delle prove indiziarie.
Peggio ancora di questa tecnica, c’è solo la preterizione che consiste nel fare un’affermazione, pur dichiarando di volerla far passare sotto silenzio.
Come sempre ci troviamo davanti a un procedimento che potrebbe essere un marshmallow o un rasoio. Dipende dal contesto e dalle intenzioni dello scrivente.
Se dico a una mia amica che me ne ha appena fatta una: “non ti sto neanche a dire quanto sei stronza” e ridiamo insieme, questo è un conto.
Un altro è un articolo di giornale in cui, parlando di qualcuno, cercando di screditarlo, diciamo cose del tipo: “Tizio non è ancora stato accusato di omicidio, ma forse dovrei tacere sui porno che sono stati trovati sul suo pc”.
Al di là del fatto che spesso non si comprende che il possesso materiale pornografico (ovviamente consenziente e maggiorenne) non è un reato, il peggio è che una frase del genere, anche senza accertamenti delle autorità, rende l’individuo in questione carne da sacrificare agli haters, che invece non fanno tanti giri di parole per accusare qualcuno.
Il problema oggi è che tutti invocano la libertà di parola, che è sacrosanta, per carità.
Ma io invoco invece un’etica della parola, che non è imponibile, né regolabile, perché è personale, fa parte della nostra coscienza.
L’appello che voglio lanciare dunque è un altro.
Le parole dovrebbero essere nostre amiche, dovrebbero aiutarci quando tutto il resto fallisce.
E allora non usiamole come tagliole o granate perché, oltre a noi stessi, faremmo un dispetto a tutti quelli che, nella storia del linguaggio e della letteratura, le parole le hanno amate sul serio e profondamente.

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