Non sono mai stata brava in fisica.
Posso dare la colpa a diversi fattori, prima di tutti il maestro di matematica che mi faceva imparare le divisioni in colonna a pugni in testa (non era colpa sua, ma di un metodo didattico un po’ vetusto), o la mia naturale propensione per le materie umanistiche (il che rende il mio cervello una specie di spugna morta di rigore), o potrei incolpare la mia odiatissima prof delle superiori (odio che, per altro, era reciproco).
Ora l’astio è passato, soprattutto da quando sono prof a mia volta: ho capito che, per lo più, i docenti cercano solo faticosamente di fare il proprio lavoro e basta, non c’è niente di personale.
L’assoluta ignoranza nei confronti delle materie scientifiche (mista a paura), invece è rimasta intatta.
Lo vedo quotidianamente con i ragazzi: più senti di non capire, più ti allontani. Ed io, in quanto sega in fisica, credevo non ci fosse nulla di più distante da me.
Poi, in seguito a un preziosissimo consiglio, mi sono imbattuta in un libretto sottile: “Sette brevi lezioni di fisica”.
Spoiler: sono veramente brevi, ma non è solo questo il motivo per cui mi hanno rapita.
Rovelli, l’autore, fa tutto ciò che un bravo popprof dovrebbe fare: spiega cose difficili in maniera semplice. E, come per magia, nell’esatto istante in cui di quella disciplina capisco qualcosa, mi si apre un mondo.
All’orale di Maturità si chiede ai candidati di mostrare una specie di “visione dall’alto” di ciò che hanno appreso alle superiori, ovvero di trovare nessi tra le materie studiate, nonché tra i loro interessi personali. Non è un’interrogazione, ma un colloquio.
Così, mentre sono nel mio monolocale a immaginare percorsi possibili per studenti di diversi indirizzi, ecco che arriva Rovelli con la sua fisica e mi dice, tra le righe, che è proprio lei a legare tutto.
Del resto l’ho sempre saputo: “fisica” viene dal greco “fusis”, ovvero “natura”. Non ve lo sto neanche a dire quanto la natura faccia da collante speciale. Hawking: la teoria del tutto, cazzo, ho pure visto il biopic su di lui!
Rovelli conferma ciò che ho sempre sospettato, ossia che il Seicento e il Novecento sono due secoli di crisi che si assomigliano molto.
Del Seicento ho già parlato, è un secolo miscagato, fondamentalmente perché sembra che gli artisti siano tutti impazziti: c’è chi scrive odi per donne cesse e chi disegna architetture impossibili. Gli intellettuali del ‘700 sanciscono la damnatio memorie al secolo precedente, e, ancora oggi, tanti prof saltano a piè pari il Barocco. Certo, parlano di Controriforma e di quello svitato di Tasso, ma solo per confrontarlo con il più limpido Ariosto.
Comunque, cosa è successo allora che ha fatto sbarellare tutti?
Copernico ha solo guardato il cielo e la stessa cosa ha fatto Galilei e alla fine è venuto fuori che non è il Sole a ruotare intorno alla Terra, ma il contrario.
La Chiesa: fuori di testa. La gente: peggio.
Perché questo significa che non gira tutto intorno a noi e alla fine gli esseri umani non contano un cazzo. Certo, non è una notizia facile da digerire. Ma è fisica.
La fisica collabora anche alla nuova crisi del Novecento. E sì, ci si mettono pure due guerre mondiali, ma in realtà sono le scoperte di Einstein a ribaltare la prospettiva.
Non solo noi non contiamo nulla, ma pure la Terra, che ci ospita e ci sembra gigante, non è altro che un puntino in una galassia che a sua volta è uno sputo nello spazio e che, neppure oggi, riusciamo a misurare per intero.
Di nuovo la fisica. Il mondo non è quello che immaginavamo: il tempo e lo spazio sono la stessa cosa, ossia un imbuto in cui tutto cade. E nessuno ci può fare niente.
Quindi gli scrittori smattano. Svevo, ad esempio, scardina il romanzo. Racconta una storia che non procede in ordine cronologico, ma tematico. La voce che la racconta è un “narratore inattendibile” che dice bugie e si contraddice. Non ci sono più certezze, non ci possiamo fidare di nessuno.
Pirandello prova a mettere una pezza, ma alla fine giunge alla conclusione che, per sopportare il mondo, non ci resta che indossare una maschera. Fingere. Oppure fare i pazzi: loro sono giustificati. Come il tizio che crede di essere Enrico IV e tutti lo assecondano, creando una corte intorno a lui. E anche quando il tipo torna in sé continua a fingersi pazzo, perché è l’unica maniera per non dare fuori.
E non serve manco fuggire, come Mattia Pascal che si dà per morto e diventa Adriano Meis, ma non riesce a stare nemmeno nei panni del suo alter ego. E allora finisce per non essere più nessuno, se non l’ombra di se stesso, il Fu Mattia, uno che porta i fiori alla propria tomba.
Montale dirà che neppure i poeti possono trovare una soluzione a questo vuoto: “Codesto solo oggi possiamo dirti, | ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”: una serie di negazioni di fronte alla semplice richiesta di una parola, quella giusta.
Dalla perfezione non viene fuori nulla di significativo e il Big Bang ne è la prova: “dal letame nascono i fior”, che ve lo dico a fare?

Non è tutto qui, però. Infatti il 1900 è anche l’anno in cui nasce la fisica quantistica.
È una roba che suona oltremodo complicata, ma vi basti sapere che la inventa Max Plank (che non è quello dei piegamenti sui gomiti), interviene Einstein e, tra gli anni Dieci e Venti, il danese Niels Bohr. Ma è il tedesco Werner Heisenberg a teorizzare la roba più sconvolgente: gli elettroni, particelle elementari, non esistono sempre. Ci sono solo se sono visti, se si sbatte o si interagisce con loro.
In sostanza lui ci sta dicendo che tutto quanto, anche noi esseri umani, esistiamo solo se entriamo in relazione con qualcosa o qualcuno. In caso contrario non ci siamo. È l’altro a determinarci.
Bum.
Come sarebbe a dire che io non esisto?
Il metodo scientifico mette in dubbio la nostra esistenza da un po’, anche perché, per sua stessa definizione, la scienza non cerca la verità, ma si basa sui “non so”, come la poesia, abbiamo detto.
Non a caso, è il 1930, e Montale pubblica per la prima volta “La casa dei doganieri”, la poesia dell’assenza per eccellenza.
È un testo per lui molto importante, che gli sembra caposaldo di una nuova fase poetica e che poi confluisce nella raccolta “Le occasioni”. Non ve lo sto neanche a dire, non si tratta delle possibilità proficue, ma delle occasioni perdute, quelle che si possono riesumare solo tramite il ricordo, unica magra consolazione.
“Tu non ricordi la casa dei doganieri”
Montale parla direttamente a un’amica d’infanzia, emblema di una giovinezza che non tornerà mai più (sullo stile della Silvia di Leopardi, per capirci).
La casa dei doganieri è tipo la caserma della guardia di finanza a Monterosso, ora dismessa. Non è che Montale fosse fan degli sbirri, il luogo è correlativo oggettivo, immagine vivida che rappresenta un’emozione, ciò che è irrimediabilmente perduto.
La perdita delle certezze, teorizzata dai fisici, è espressa bene nei versi: “la bussola va impazzita all’avventura | e il calcolo dei dadi più non torna.”
Montale racconta in poesia ciò che gli scienziati, prima citati, hanno espresso con i calcoli. Non abbiamo linee-giuda per il futuro, il passato è solo un’ombra e non ce ne siamo mai accorti.
Così, mentre Heisenberg scrive un’equazione, a Montale non resta che sentenziare amaramente: “Tu non ricordi la casa di questa | mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.”
Ho sempre fatto schifo nelle materie scientifiche, ma le lezioni di fisica, in fin dei conti, sono, come vedete, lezioni di tutto.

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