C’è chi dice che ciascuno di noi viva in una bolla.
In parte è vero: contatti di Facebook, follower su Instagram, amici nella vita reale, alla fine ci circondiamo di chi la pensa come noi. Affinità? Certo. Ma con questo metodo forse rischiamo di non avere una versione lucida della realtà.
Poi, per vicissitudini varie, ti capita di incontrare qualcuno che ha valori diametralmente opposti ai tuoi. E allora devi prendere una decisione.
In questo periodo mi sono trovata spesso a chiedermi: posso essere amica di un fascista?
I fascisti oggi non si definiscono tali, quindi, se leggessero questo articolo, probabilmente non si riconoscerebbero.
I fascisti odierni sono quelli credono di essere partigiani, perché portatori di un’ideologia impopolare (anche se, a quanto è emerso dalle ultime elezioni, pare parecchio diffusa), che dicono che i migranti dobbiamo aiutarli a casa loro, che i bambini devono avere assolutamente una mamma e un papà, o che il cambiamento climatico è una bufala. Scusate, sono impietosa, ma mi girano le palle.
Il paradosso è che proprio loro invocano la democrazia e si barricano dietro alla libertà d’espressione, che è sacrosanta, per carità, ma lo è finché non limita la libertà degli altri o non ferisce qualcuno.
E sono sicura del fatto che ciò che penso non metta delle barriere a chicchessia, per questo lo professo così apertamente.
Che cosa cambia a una coppia, cis ed etero, se due donne, o due uomini, fanno un bambino (sbattendosi non poco, tra l’altro). Quale intralcio provoca a una persona privilegiata, se chi è nato dalla parte sbagliata del mondo sale su un barcone per cercare una vita migliore altrove?
E potrei andare avanti così a lungo, ma il punto è un altro. Quando mi capita di incontrare una persona di questo tipo, che sia per lavoro o per svago, magari anche un tizio simpatico e piacevole, è giusto che diventi sua amica o anche solo che ci passi del tempo, se i nostri valori sono così agli estremi?
Può sembrare ancora più paradossale, ma a volte la decisione ferrea di non avere a che fare con nessuno di destra mi sembra una specie di pregiudizio al contrario. Potrei forse sforzarmi di conoscere quella persona e scoprire che, idee politiche a parte, non siamo poi tanto diversi.
Allora, come spesso capita quando devo dirimere questioni spinose, mi rivolgo ai miei amici scrittori, del resto, nel dolore o nel dubbio, loro hanno sempre saputo darmi una mano.
Molti autori del Novecento hanno avuto a che fare con il fascismo, quello vero, e, nonostante io li ammiri profondamente, la maggior parte di loro ha scelto di aderirvi.
Ho già parlato di D’Annunzio e della sua relazione tossica con Mussolini. In realtà però ce ne sono tanti altri.
Cominciamo un po’ prima, da Pascoli, morto prima dell’avvento della dittatura.
Ai sui tempi in Europa tirava già una brutta aria. I Paesi vivevano a pane e nazionalismo.
Nazionalismo in sintesi: “La mia patria è meglio di tutte le altre”. Questo giustifica l’antisemitismo, che era già di moda, nonché la guerra come dimostrazione di forza (non caso tra poco ne avremo due, mondiali), e poi lo sfruttamento delle colonie.
Quello delle colonie è un tema antico, che proviene dai Greci, che cambia significato nel Cinquecento, con la scoperta di nuove terre, diventa guerra tra paesi europei nell’800, per poi trasformarsi in una gara a chi ce l’ha più lungo nel ‘900.
All’inizio del Secolo Breve, infatti, conquistare un paese povero e accidentato è una dimostrazione di forza, un modo di farsi belli agli occhi dell’Europa.
È il periodo della cosiddetta “Belle époque”: bella, certo, ma solo per chi se lo può permettere.
In Italia al potere c’è Giolitti, che teoricamente sposa il centrismo, ma come tutti quelli che stanno nel mezzo (come spiega Dante), merita solo vermi e vespe. Lui pratica la teoria del non intervento dello Stato nelle questioni economiche, il che significa che i problemi degli operai sono cazzi loro, sostanzialmente.
Al momento l’Italia è tipo lo zimbello delle nazioni europee. Per intenderci, l’Inghilterra controlla l’Egitto e l’importantissimo canale di Suez, mentre l’Italia si deve accontentare degli scarti degli altri.
Per questo Giolitti tenta di conquistare la Libia, tra i disgraziati, una delle nazioni più disgraziate.
Spoiler: gli italiani si macchieranno di atti orribili là in nord Africa e la conquista si rivelerà una sòla totale, perché le perdite in fatto di uomini, di mezzi e di denaro non saranno mai colmate dai guadagni ottenuti dalla nuova colonia.
Non a caso questa è una delle ragioni per cui Giolitti è costretto a dimettersi, consapevole di aver fatto una colossale minchiata.
Eppure molti italiani credono in questa impresa. Tra di loro il poeta Pascoli che, per incoraggiare la conquista della Libia, scrive il celebre discorso “La grande proletaria s’è mossa”. “La grande proletaria” è appunto l’Italia che finalmente ha modo di mostrare agli occhi del mondo quanto vale.
Una posizione oltremodo nazionalista e prevaricatrice, proprio dal poeta delle piccole cose, quello che se ne sta chiuso nel suo nido, soffrendo per l’assenza del padre e per una vita che non è quella che si aspettava. Fa strano pensare che lui, vittima per eccellenza, si schieri dalla parte degli oppressori. Manzoni, se l’avesse conosciuto, gli avrebbe fatto il culo.
Tornando però al fascismo duro e puro, incontriamo Pirandello, che aderisce a questo movimento con entusiasmo (e dunque non solo per dovere). Altro squarcio nel mio cuoricino.
Ma come, Luigino? Tu che hai una sensibilità tale per cogliere gli inganni del mondo e ci dici che non sei adeguato e tendi la mano a tutti i non conformi, ti leghi a una dittatura? Un movimento che, per sua stessa natura, ti dice come devi essere e rifiuta a priori tutto ciò che non è standard?
A sua discolpa dobbiamo dire che per molte persone, famose o meno, il fascismo era una promessa di ordine dopo il caos della guerra. A Pirandello sembra un modo per uscire dalle costrizioni della società (epic fail), quindi lui aderisce a questo movimento con spirito anarchico, non politico.
Inoltre non si può ignorare il fatto che Pirandello muore nel ’36, dunque non vede la deriva della dittatura: le leggi razziali del ’38, Hitler-style, nonché gli orrori della Seconda guerra mondiale.
Magra consolazione, ma almeno un’attenuante.

Anche di Ungaretti ho già parlato, ma ora vorrei approfondire.
La sua formazione culturale avviene a Parigi, dove incontra gente fica. Tipo i poeti simbolisti che gli insegnano a essere scarno, cercando sempre di dire tanto in poco spazio. Ma soprattutto conosce Filippo Tommaso Marinetti che, proprio in quegli anni, redige il manifesto del Futurismo e lo pubblica per la prima volta sul giornale “Le Figaro”.
Dal Futurismo Ungaretti impara una scrittura nuova, fatta di assenza più che di presenza: no punteggiatura, versi brevi, talvolta così minuti che si riducono a una parola sola, spazi bianchi per sottintendere il silenzio e brevità in generale. Ma il Futurismo è anche il movimento che celebra la velocità, non a caso la macchina ne è il simbolo, e la guerra come strumento purificatore.
Tant’è vero che, nel 1914, quando scoppia la guerra, e l’Italia si dichiara neutrale, nel Paese dilaga la lotta tra interventisti (che vogliono la guerra) e neutralisti (a cui invece vanno bene le cose come stanno).
In questo bordello Ungaretti non ha paura di far capire come la pensa, infatti, non appena viene siglato il Patto di Londra, il poeta non ci pensa neanche un secondo, lascia Parigi per arruolarsi come italiano volontario.
In guerra vive un’esperienza terrificante, non solo perché all’inizio, sotto la guida del generale Cadorna, gli italiani fanno sostanzialmente schifo, ma perché lui subisce tragicamente la condizione del soldato in trincea, come molti dei suoi “fratelli” sparsi nel mondo.
È in quell’occasione che scrive “L’Allegria”, usando fogli di recupero e sviluppa le sue convinzioni antimilitariste.
Questo non basta, però, perché, all’avvento del fascismo, lui vi aderisce senza colpo ferire. E non ha attenuanti, come Pirandello, infatti, quando cade il regime, e in Italia non si vuole più sentir parlare di fascisti, lui perde la sua cattedra universitaria e si fuma pure il premio Nobel.
Come gestire questi autori che, come tante persone che conosco, sono così distanti da me, ma al tempo stesso così affini per ciò che sentono e scrivono?
Be’, c’è anche da dire che il fascismo di allora non è assimilabile a quello d’oggi, perché quello odierno deriva da una condizione che si ritiene di valore. Io merito di essere meglio degli altri, perché mi sono fatto il culo. Per carità, sarà anche vero, ma il punto di arrivo ha anche a fare con la partenza. Quanto deve essere grande lo sforzo per uno che è nato in Italia, ha potuto studiare, viene da una famiglia più o meno colta, ha una casa di proprietà a Milano, e quanto deve essere quello di chi nasce in un Paese miscagato dell’Africa, o anche solo a Librino, in provincia di Catania?
Le due situazioni non possono essere confrontate.
Non è un caso, forse, se il mio preferito resta Montale. Nel 1925, quando in Italia vengono promulgate le leggi Fascistissime, lui pubblica “Ossi di seppia” ed è pronto al trasferimento. Lui è uno dei pochi, che conosco e amo, a firmare il Manifesto degli intellettuali antifascisti, con tutte le conseguenze del caso. Viene licenziato dal Gabinetto di Visseux, si trasferisce, non trova pace. Scrive ne “Le occassioni” e ne “La bufera e altro” degli orrori del fascismo, dell’antisemitismo e della guerra e non si sposta mai di un millimetro, nonostante allora non gli convenisse.
Dunque, in sostanza, ammiro Montale per la sua scelta integerrima, senza sconti. E forse riesco pure a perdonare Pascoli, Ungaretti e Pirandello.
Ma non riesco a giustificare chi oggi è fascista, soprattutto se si discosta da questa definizione.
Come posso come posso instaurare un dialogo con i loro, se non hanno nessuna attenuante?
Forse sarò rigida, ma io dei fascisti non sarò mai amica.

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