Faccio coming out: i miei studenti hanno il permesso di usare le parolacce nei temi, se lo ritengono imprescindibile.
Sì, probabilmente questa notizia vi farà saltare sulla sedia. Magari alle superiori avete avuto la prof con la gobba e con la bacchetta in mano. Tanto rispetto anche a lei, ovvio, ma oggi le cose sono un po’ cambiate.
Okay, quando do il via libera, poi mi capitano studenti come S. (16 anni) che produce un componimento di tre righe in cui inserisce sei parolacce. “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, direbbe il professor Silente, e gli adolescenti, a volte, fanno fatica con entrambi i concetti.
Quello che vorrei far capire loro è che il problema non è il turpiloquio in sé, il punto, come sempre è come ne facciamo uso.
Dunque in questo post spiegherò la natura grammaticale delle parolacce, con tanto di ragioni, valide e regolamentate, sul perché usufruirne o meno.
Vi anticipo subito che non sono bacchettona: ne dico e scrivo un sacco.
Mio padre, quando mi legge, si lamenta puntualmente della loro presenza abbondante nei miei testi. In classe, devo ancorarmi saldamente alla cattedra per non farmi sfuggire dalla bocca un “vaffanculo” (ad alunni o colleghi, senza discriminazioni), o per non rispondere a qualcuno con un dito medio alzato.
Le parolacce però non sono da demonizzare, semmai da capire. Qualche anno fa anche Alessandro Barbero aveva sconvolto tutti quanti con il suo saggio dal titolo “La voglia dei cazzi e altri fabliaux medievali”. Dunque se lui può, chi sono io per censurare chicchessia?
Per affrontare meglio la questione, cominciamo col chiederci cosa sono le parolacce a livello grammaticale.
D’istinto mi verrebbe da dire dei nomi. “Cazzo”, “minchia” o “troia”, per esempio, individuano cose o persone, come fanno i nomi. Ma poi ci sono casi come “vaffanculo” che invece potrebbe essere ritenuto un verbo al modo imperativo perché designa un’azione, un ordine molto specifico.
Attenzione però, si tratta infatti di uno dei casi in cui l’uso di questi elementi cambia la loro natura.
In italiano esiste un discrimine grammaticale, che riguarda il lessico, tra “parole piene” e “parole vuote”.
Le prime sono portatrici di significato: “giardino”, “camminare”, o “blu”, ad esempio, sono parti del discorso diverse, rispettivamente nome, verbo e aggettivo, ma tutte cariche di un senso preciso e condiviso dai parlanti.
Le seconde invece sono parole, diciamo, “di servizio” hanno una funzione tecnica, ma di per sé non significano nulla. È il caso delle congiunzioni, per citare una categoria: “e” e “ma” allacciano tra di loro frasi e sintagmi, ma da sole non hanno valore semantico (così si dice).
Dunque, in quale categoria inserire le parolacce?
Sì, hanno un significato preciso, ma di fatto noi non le usiamo in quanto tali: sono solo scatole di suono.
“Cazzo, mi è caduta la biro!”, in questo caso l’appena citato “cazzo” non è presente nella frase per il suo significato intrinseco, ma solo per dare enfasi alla nostra affermazione, per sottolineare il fastidio provocato dalla biro che scivola lungo il piano per poi finire a terra.
A parte certi casi (che però sono proprio pochi), se diciamo a qualcuno “Sei una troia”, non vogliamo ricordare a questa persona che la sera batte il marciapiede. Spesso non ci riferiamo neppure al suo comportamento promiscuo, ma vogliamo solo usare un insulto veemente. Non a caso, in inglese abbiamo il termine-ombrello “bitch” che accoglie sotto la sua tesa: “stronza”, “troia”, “cagna”, ecc…
“It’s Britney, bitch”.
“Vaffanculo”, poi, non è mai un ordine o un consiglio, come suggerirebbe la natura della parola, semmai un modo per concludere una conversazione in modo netto.
Ecco, seppur parole portatrici di un significato (a volte con tanto di etimologia), il senso si perde nell’uso: a forza di ripeterle, valgono solo in quanto intenzioni.
Quindi, seguendo questo ragionamento, hanno lo stesso valore delle interiezioni, tipo “eh!” o “Ah”.
E se non sapete cosa siano le interiezioni non vi preoccupate, perché sono le parti del discorso più miscagate dell’analisi grammaticale: nessun insegnante arriva mai così in là con il programma da spiegarle in classe.

Okay, ora abbiamo capito che le parolacce sono parole vuote, dunque non si possono più usare?
No, al contrario, rimango dell’idea che a volte, anche nei temi in classe, la parolaccia sia utile per esprimere un certo stato d’animo, o come scelta d’effetto. Perché, diciamocelo, la parolaccia richiama l’attenzione.
Su Wikipedia esiste una pagina dedicata addirittura alle bestemmie, in cui, tra le altre cose, vengono elencate tutte le opere letterarie in cui sono presenti. Spoiler: c’è anche Dante.
Sempre a proposito di bestemmie, gli Scapigliati (gruppo letterario italiano che, a fine Ottocento, si oppone al Romanticismo) dicevano che solo i veri credenti bestemmiano, perché la bestemmia è una preghiera rovesciata: una richiesta d’aiuto più forte e incisiva, un modo per attirare l’attenzione di Dio. Ti prego, aiutami, ho bisogno di te.
Va be’, casi estremi a parte (in Italia c’è pure una legge contro la blasfemia, dunque non forse non è il caso di bestemmiare nei temi), il problema delle parolacce è un altro, ossia quando vengono utilizzate al posto di parole piene. Quest’ultima scelta infatti denota solamente povertà di linguaggio, nonché di argomentazioni.
Se avete letto i miei precedenti post, ora vi sembrerò fissata, ma tant’è: una mia amica, anni fa, aveva fatto la sua tesi sul turpiloquio, dall’origine, fino al suo uso nel linguaggio contemporaneo. Le conclusioni di quella tesi sostenevano che l’uso del turpiloquio è quello preferito dai politici di destra che, lo sappiamo, ai giorni d’oggi, puntano tutto su una retorica povera, per acchiappare i consensi facili.
Non che la sinistra sia meglio, ma per deformazione professionale non sopporto chi fa demagogia gratis.
Dunque, qual è la soluzione?
Ritengo che, se volete davvero insultare qualcuno (e a volte ci sta), sia meglio utilizzare espressioni piene.
Pensiamoci, “sei una mela marcia” è molto più forte di “sei un coglione”, o per lo meno, il significato della prima frase è molto più espressivo e sfaccettato rispetto a quello della seconda.
Don Bosco amava ripetere: “La mela marcia fa marcire tutto il cestino”. La stessa efficacia semantica non si può associare ai coglioni.
La lingua italiana è piena di possibilità, dunque non limitiamoci a quelle più a portata di mano, ma sfruttiamole tutte quante.
E, promesso, a voi, piccoli cuori, non dirò mai che siete mele marce.

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