Storia del dissing

In questo periodo, a causa di una diatriba tra due famosi rapper-trapper, appare dappertutto la parola “dissing”, che altro non è se non uno scontro tra artisti, il cui scopo, ce lo dice l’etimologia stessa, è appunto insultare, offendere l’altro.

Questo particolare siparietto di ingiurie ovviamente ha creato un certo interesse.

Andando però a scavare nel passato, come a noi piace fare, scopriamo che Fedez e Tony Effe non sono i primi, ma soprattutto neanche i più originali.

Torniamo indietro intorno al 520-470 a.C.

I Greci sono al top della forma e, in particolare, la ceramica attica fa un salto di qualità perché diventa a colori. È il periodo dei cosiddetti “Pionieri delle figure rosse”. I loro vasi sono giganti e gli artisti usano la vernice per sottrazione, ossia stendono solo lo sfondo e risparmiano la figura che vogliono rappresentare, la quale, appunto emerge nel rosso del materiale di cui il vaso è fatto.

Sono dei guaglioni un poco scemi che non si firmano con i loro nomi, ma con nomignoli, tipo Euphronios, ossia “il saggio”, oppure Eutymides “il buono”, o ancora Smikròs “il piccoletto”.

Dipingono scene sacre fighissime, appartenenti all’epica, eccetera, ma d’altra parte non nascondono che si odiano a vicenda e inseriscono volentieri battute o allusioni scomode all’interno delle loro ceramiche.

Smikròs, per esempio, raffigura su un vaso una scena in cui Euphronios corteggia un giovane nel ginnasio. Essere gay non era poi così riprovevole nell’antica Grecia e meno ancora, assurdamente, essere pederasti. Era semplicemente considerata una cosa un po’ vergognosa, perché da immaturi, l’equivalente di: “Ma cresci un po’, ancora ti fai i ragazzini?”.

E poi Eutymides rincara la dose scrivendo su una sua opera “Mai come Euphronios”, per fare lo sgambetto al suo concorrente. Sai che roba, direte voi. Be’, se pensate che questa frase è incisa su un vaso destinato a durare secoli, di certo acquista un altro valore, tipo: “Piuttosto che essere come lui preferisco limonare con il Minotauro”.

A Roma invece sono tutti un po’ più burini.

63 a.C., Cicerone vs Catilina. Il primo, l’avvocato, pronuncia in senato la famosa frase: “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?”, per poi procedere con un’orazione incalzante che non lascia scampo al nobile congiurato.

(Fino a quando abuserai della nostra pazienza? = Catilina, hai rotto il cazzo).

Per il tempo e il luogo i toni sono accesi, ma Cicerone era gonfio raso del suo avversario che tramava l’assassinio dei due consoli. Forse le sue parole dure qui erano per una giusta causa.

Sempre in ambito romano, incontriamo poi Catullo, poeta che la tradizione ci dipinge come giovane e innamorato. Attenzione però, perché l’amore fa dei brutti scherzi, così pure lui compone dei versi contro i suoi rivali che fanno così: “Pedicabo ego vos et irrumabo | Aureli pathice et cinaede Furi”, che significa: “Io a voi ve lo metto in culo e in bocca | Aurelio frocio e Furio pederasta”.

Per i romani la questione queer era un po’ spinosa, perché, popolo di belli e bulli, ritenevano l’omosessualità una mancanza di virilità, inaccettabile per un romano. Quindi anche il sensibile Catullo si lascia scappare versi omofobi e beceri. Per carità, quanto a forma non possiamo dire nulla. Il chiasmo del secondo verso, ad esempio, è uno stratagemma fortemente poetico che rende ancora più potente l’insulto: i due sgradevoli epiteti infatti sono chiusi simmetricamente tra i nomi Furio e Aurelio. Molto elegante. La sostanza però rimane uguale.

Arriviamo al medioevo. I toni qui sono più pacati, ma perché si tratta di una scrittura che nasce nell’ambito della corte, quella siciliana di Federico II, quindi era necessario mantenere un certo decoro.

Non per questo mancano i dissing, che allora si chiamavano “tenzoni poetiche” e consistevano in una serie di missive scambiate tra intellettuali in cui mittente e destinatario si punzecchiavano a vicenda proponendo differenti visioni del mondo.

In particolare voglio citare l’esempio della discussione tra Jacopo da Mostacci, che era il falconiere di Fede II, e Giacomo da Lentini (il “notaro” che, tra le altre cose, inventa il sonetto) che battibeccano su che cosa sia l’amore.

Che ve lo dico a fare? Ciò che ci rimane dello scambio non è una valanga di insulti, ma il sonetto “Amor è uno disio che ven da core”.

Senza nulla togliere ai nostri poeti contemporanei – da sempre sostengo che le canzoni, anche quelle rap, abbiano una loro dignità letteraria e sono ammirata dai performer che riescono a comporre versi e rime in pochi secondi.

Ma in questo caso, be’, giudicate voi.

“I tuoi migliori amici devi pagarli | hai fatto i figli solamente per postarli | chissà che penseranno quando saranno grandi | Fai schifo, davvero, sеi una vergogna.”

“Hai i capelli bianchi, fatti una tinta | ti vedo isterica, cambia terapista | Hai perso moglie, non hai famiglia | la prossima figlia devi chiamarla Sconfitta.”

Gli attacchi di Tony Effe riguardano la virilità di Fedez, il suo aspetto fisico, la moglie, la famiglia, manca solo sua mamma e siamo all’estate ragazzi in oratorio nel ’96. Ah no, la mamma la cita più avanti, dimenticavo.

Continuiamo però con le varie risposte di Fedez:

“Tony, non scappare, dimmi dove sei | vuoi mettere i tuoi contro i miei? | Se tu fai il cecchino, sono Donald Trump | se lo faccio io, sei JFK.”

Sei troppo figo, sei palestrato | Ma, quando parli, sei Luca Giurato (Ahahah)

Non devo neanche specificare quanto sia riprovevole paragonarsi a Donald Trump, per qualsiasi ragione sia. E neanche quanto sia di cattivo gusto citare, in una modalità simile, Luca Giurato, mancato da poco tempo, vero?

Ma questo non basta, perché c’è anche l’atto finale della diatriba con la canzone “d’amore” per la Ferragni, in cui però io non vedo niente di amoroso da parte del suo ex.

“Di’ al tuo avvocato che mi ha contestato un tentato suicidio | che chiedo scusa, che chiedo venia per procurato fastidio | Ho preso le gocce e no pezzi di vetro | perché sapevo che non volevi che si sporcasse il tappeto.”

Per dirne una.

E vi ho risparmiato le parti i cui i due rapper si danno del cocainomane a vicenda.

Che dire? Gli artisti del passato a quanto pare non avevano un limite e quindi non ce lo dovrebbero avere neanche quelli del presente?

Esattamente il contrario.

Viviamo in una società in cui, senza essere bacchettoni, abbiamo capito che non si può dire tutto quello che ci passa per la testa, senza filtri, soprattutto se sei un personaggio pubblico.

Io sono ancora sconvolta dal: “Chiavo un culo a panettone, ma non è Balocco (Uah)” da “Di Caprio” di Fedez, in cui i riferimenti spiacevoli all’ex moglie sono molto chiari.

Le goliardate esistono da sempre, ma per fortuna oggi abbiamo compreso che, onde evitare di ferire qualcuno, è meglio se restano private.

E allora no, la storia del dissing non giustifica Fedez e Tony Effe, come non giustifica quelli che dicono robe orribili in nome della verità.

Lo ricordo sempre ai miei alunni, quella non è verità, è maleducazione, e noi oggi abbiamo la sensibilità adatta per capirlo.

Non siamo costretti ad amare tutti, ma abbiamo il sacrosanto dovere di non ferire il prossimo, anche e soprattutto se siamo artisti.

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