Un giorno questo dolore ti sarà utile?

Lord Byron scrisse: “Se Laura fosse stata la moglie di Petrarca lui non avrebbe scritto neanche un sonetto.”

Me lo sono chiesta spesso e ora lo domando a voi, è vero che il dolore e la buona scrittura sono direttamente proporzionali? Proviamo a ragionarci con calma.

Detto da una che scrive, devo ammettere che il requisito principale per dedicarsi a questa attività è avere qualcosa da dire, meglio se si tratta di un fatto che ti coinvolge in prima persona (perché dacché qualcuno ha preso in mano una penna, è buona cosa raccontare di ciò che meglio si sa).

Nessun lettore, poi, si prende la briga di mettersi lì a leggere il tuo romanzo per sapere di due che stanno insieme, si amano molto e va tutto bene, grazie. Il dramma, i guai ci servono per immedesimarci e per capire che il nostro male non riguarda solo noi sventurati, ma che nei pensieri dolorosi di quell’autore c’è anche qualcosa di tuo.

In classe spesso mi chiedono: “Prof, com’è è possibile che non ce ne sia uno felice?”

Sì, è vero, a fare un sondaggio, nessuno dei più famosi scrittori ha ciò che desidera.

Lasciamo stare Dante e Petrarca, che sono i più noti quanto a fregature, e risparmierò anche il povero Leopardi dal solito scempio di chi lo ritiene uno sfigato e basta: il fatto di aver amato (come tutti) e di non essere stato mai ricambiato non è certo la ragione che l’ha portato a scrivere, infatti lui di solito parlava di tutt’altro.

Comincerò con una poetessa che visse nell’antica Grecia tra il VII e il VI secolo a.C., Saffo.

Si tratta di un’autrice molto discussa, soprattutto per i suoi costumi sessuali: pare che si sia suicidata per l’amore non corrisposto di un certo Faone. La leggenda più famosa, però, dice che lei era la direttrice di un tiaso sull’isola di Lesbo, una specie di college per ragazze di buona famiglia, dove le fanciulle venivano educate alla danza, alla musica, alla poesia, ovviamente all’essere delle buone mogli eterosessuali, nonché al culto di Afrodite.

Afrodite era la dea dell’amore, per inciso, e si sa come vanno queste cose: un balletto di qua, una canzone al karaoke dall’altra parte e a volte tra le fanciulle e Saffo nasceva una relazione sessuale: Hello, mrs Robison!

Al di là delle implicazioni morali di questo fatto (all’epoca, almeno per i maschi, farsi dei ragazzini, magari pure degli studenti, non era un gran problema), ed escludendo anche le etichette da affibbiare alla nostra poetessa (etero, lsb o bi?), resta il fatto che, alla fine del percorso di studi, le fanciulle tornavano a casa con il loro futuro marito e Saffo ci restava di merda.

Questo grande dolore ha prodotto le più belle poesie della nostra cultura. Vi faccio un esempio famoso (ma vi risparmio l’originale in greco):

“Simile a un dio mi sembra quell’uomo | che siede davanti a te, e da vicino | ti ascolta mentre tu parli | con dolcezza e con incanto sorridi.”

Non ci posso fare niente perché lui, quello che ti sta portando via da me, mi pare un dio.

“E questo | fa sobbalzare il mio cuore nel petto. | Se appena ti vedo, sùbito non posso | più parlare: | la lingua si spezza: un fuoco | leggero sotto la pelle mi corre: |nulla vedo con gli occhi e le orecchie | mi rombano: | un sudore freddo mi pervade: un tremore | tutta mi scuote: sono più verde | dell’erba; e poco lontana mi | sento dall’essere morta.”

Sembra l’inizio di un attacco di panico. Ma non è vero che a volte ci sentiamo esattamente così quando un amore finisce o capiamo che non sarà mai ricambiato come vorremmo? Sembra la fine del mondo. E forse, se Saffo non avesse mai sofferto per amore, non avrebbe mai prodotto dei versi tanto lucidi e puntuali a proposito di una sensazione orribile che, volenti o nolenti, tutti abbiamo provato almeno una volta, pur senza possedere le parole giuste per spiegarla.

Andiamo un po’ avanti nel tempo e passiamo a Ludovico Ariosto, poeta del Rinascimento. Era innamorato di una tizia di nome Alessandra Benucci che, come lui, frequentava la corte degli Estensi. Solo che la Benucci prima era sposata, quindi niente. Poi rimane vedova, però resiste a lungo alle avance di Ludovico, primo, perché lui era famoso nel giro per avere altre donne, poi perché comunque lei, almeno per forma, doveva rispettare un periodo sufficiente da vedova inconsolabile. Così lo fa penare parecchio e, quando finalmente cede, pretende che la loro relazione rimanga segreta (non vuole traumatizzare i figli avuti con il marito defunto). Addirittura i due, sì, si sposano, ma all’inizio lei è irremovibile sul fatto che pure le nozze siano segrete.

Non ve lo sto neanche a dire, Ariosto ovviamente va fuori di testa. E in una situazione di disagio così grande fa la cosa che ogni scrittore disagiato farebbe: scrive un poema di successo, in cui racconta di un eroe medievale, paladino di cristianità, che diventa pazzo per amore: “Orlando furioso”, appunto.

Abbiamo traccia di questo tormento privato nel proemio dell’opera qui citata:

“Dirò d’Orlando in un medesmo tratto | cosa non detta in prosa mai, né in rima: | che per amor venne in furore e matto, | d’uom che sì saggio era stimato prima; | se da colei che tal quasi m’ha fatto, | che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima, | me ne sarà però tanto concesso, | che mi basti a finir quanto ho promesso.”

La Ale l’ha fatto così penare che per poco non saltava tutto il poema. Capite ora di cosa sto parlando? È vero che il dolore è interessante, ma quando stai troppo male non riesci a scrivere nemmeno una riga e ve lo dice una a cui diverse persone hanno bloccato il processo creativo (poi è ripartito: gne gne gne).

Foscolo invece ha avuto tante donne (che fosse uno sciupafemmine non è così noto), altrettanto vale per D’Annunzio (notizia più diffusa tra i lettori. Invece la storia della costola, diciamolo una volta per tutte, è una fake news). Chi lo sa se i due fossero felici di cambiare fidanzata con la stessa frequenza con cui cambiavano le mutande o se avrebbero preferito una relazione stabile. Boh. Fatto è che hanno scritto bene comunque, al di là delle loro delusioni o prodezze d’amore.

Montale, l’ho già detto, ha avuto un sacco di amanti e ha scritto abbondantemente… di altro. L’unica vera sofferenza amorosa della sua vita è stata la morte della moglie Mosca, dopo appena di un anno di matrimonio. Ed è vero, un evento di tal portata produce delle poesie bellissime:

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale | e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.”

Sì, ma Montale non è rappresentabile solo con “Xenia” e poi quando lavora a questa raccolta ha già la depre di suo.

Alda Merini soffriva un casino per amore, ma, diciamolo, aveva altri problemi con cui confrontarsi: “E dopo, quando amavamo | ci facevano gli elettrochoc”. Il manicomio prima della legge Basaglia era il posto in cui venivano confinate spesso le donne troppo libere, quelle che volevano qualcosa di più rispetto all’essere mogli e madri, dunque, per Alda, si trattava una questione ben più urgente e le delusioni d’amore, in questo quadro, sono paragonabili solo a un viaggio a Disneyland.

Patrizia Cavalli, poetessa, che purtroppo da un paio d’anni non c’è più, ha avuto relazioni parecchio burrascose e poi lunghi periodi, a detta sua, senza amore. Lei ha il talento di saper scrivere cose di tutti i giorni, con parole comuni, ma usando un metro classico: “Tu te ne vai e mentre te ne vai |Mi dici: Amore mio mi mancherai. | e in questi giorni tu cosa farai? | Io ti rispondo: Ti avrò sempre presente, | avrò il pensiero pieno del tuo niente.” Che è una roba che poi dire solo ad una persona che ti ha definitivamente rotto i coglioni: una metafora e anche un’antitesi, “il pensiero pieno del tuo niente”, il modo migliore per comunicare a qualcuno che non ne puoi più delle sue angherie.

Quindi, dopo tutti questi esempi illustri, vi chiederete, che ne pensa la popprof?

No, le pene d’amore in definitiva non sono un requisito essenziale per scrivere, non solo perché, in quanto scrittrice improvvisata, ne ho la prova, ma anche perché, per esserne certa, mi basta guardare uno degli autori più prolifici del nostro tempo, ossia Stephen King. Che piaccia o meno – “che c’entra l’horror con l’amore?” (istanza comunque discutibile) –, in fin dei conti, ciascuno dei suoi numerosi libri è puntualmente dedicato a Tabitha, l’adorata moglie.

In “On writing”, una sorta di autobiografia del suo mestiere, lui dice: “Scrivere è un’occupazione solitaria, ma avere qualcuno che crede in te fa una grande differenza” e poi racconta di quando la moglie ha letteralmente salvato dalla spazzatura “Carrie”, il suo primo romanzo. Se lui è il King dell’horror, dunque, il merito è anche un po’ di Tabitha e il fatto di essere stato felice con lei per tutti questi anni non gli ha impedito di scrivere, anzi.  

In sintesi, se avete un dolore da raccontare, fatelo, ci sarà sempre qualcuno che aspetterà la vostra testimonianza. Ma se siete felici, scrivetelo comunque, abbiamo tutti bisogno anche di un po’ di speranza.

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