“Senza infamia e senza lode” è una frase celebre, pop al punto giusto, vale per esprimere un giudizio su parecchi temi: un piatto di pasta, un romanzo, il date con un tipo di Tinder… ovviamente non si tratta di una valutazione positiva, soprattutto se consideriamo che è un’espressione che viene direttamente dall’inferno e che il primo a pronunciarla è stato Dante.
Secondo Dante l’inferno è un cono rovesciato che si trova sotto a Gerusalemme (coincidenze?) e che si è praticamente scavato da sé, senza abusi edilizi, quando Dio ha scagliato Lucifero giù dal paradiso. Lucifero, in origine, era l’angelo preferito di Dio, quello sempre in lista quando si facevano le feste, non a caso il suo nome significa “portatore di luce”, mica male. Poi un giorno Lucifero organizza una congiura contro Dio per spodestarlo e, nel giro di poco, si ritrova gettato nel fondo di un cratere orribile.
All’inferno, appunto, vengono puniti coloro che non hanno speranza di redenzione: “lasciate ogne speranza voi ch’intrate” recita la celebre frase incisa sulla porta d’accesso e vale come monito per le anime a cui non fosse chiaro che, a differenza del Purgatorio, chi finisce lì non ne esce.
Il purgatorio invece è una montagna, va verso l’alto anziché verso il basso, e le anime, disposte a seconda dei peccati nelle varie cornici, hanno l’aspettativa di una scalata in due modi: espiando a mano a mano i propri peccati o puntando sulla gente che da casa prega per loro, tipo televoto.
Perfino Dante si prende male di fronte al famoso monito sul varco ed è Virgilio, sua guida, che lo invita a farsi coraggio e ad entrare. Quel che il poeta si trova davanti non è ancora l’inferno, ma la sua anticamera, qui vi risiedono le anime che fanno schifo pure ai demoni, perché in vita non seppero scegliere tra bene e male, ossia gli ignavi.
Secondo il contrappasso, assai in voga nell’architettura dantesca, queste ombre, per punizione, devono correre nude dietro a una bandiera che costantemente va da una parte all’altra, inseguite da vespe e da mosconi che le tormentano, mentre ai loro piedi un tappeto di vermi si nutre delle loro lacrime mischiate al sangue. Insomma, una merda.
Tra i dannati, Dante come sempre scorge della gente famosa, in primo luogo gli angeli che, durante la rivolta Lucifero vs Dio, non scelsero nessuna delle due fazioni, “non furon ribelli | né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro”, e poi Celestino V: “colui che fece per viltade il gran rifiuto”.

Il Papa, di norma, rimane in carica fino alla morte, è una di quelle regole da cui cristianamente non si sgarra, Celestino V fu il primo a lasciare il soglio pontificio prima della data naturale di scadenza (il secondo, e ultimo per ora, è stato Ratzinger), ragion per cui si merita l’inferno.
Ora, una delle cose difficili da capire della “Commedia” è che esiste il Dante personaggio e il Dante autore, il primo è quello che guarda sconvolto le vicende dei regni ultraterreni e sta male e ogni tanto sviene pure, il secondo è il bastardo che scrive e che ficca all’inferno chiunque gli stia sul cazzo. Nello specifico, Celestino V non è nella top list delle persone simpatiche al poeta perché la sua rinuncia porta al potere Bonifacio VIII che, tramite magheggi vari, sostiene i Guelfi Neri a Firenze e Dante di conseguenza finisce in esilio. Ecco spiegato l’atavico livore del poeta nei confronti di Celestino V.
Nonostante le emozioni contrastanti di Dante, Virgilio lo esorta con un’altra celebre frase: “guarda e passa”, così i due vanno avanti.
Prima dell’inferno vero e proprio, a quel punto, c’è ancora un ostacolo da affrontare che è l’Acheronte, il fiume infernale, sulle cui sponde si trova un demone molto particolare: Caronte, descritto come un vecchio, con la barba bianca e gli occhi ardenti come brace. Caronte ha il compito di trasportare le anime da una parte all’altra del fiume, le fa sedere sulla sua barchetta e le prende a parolacce e colpi di remi sulla schiena, quando queste non sono disciplinate.
Caronte è il primo all’inferno a fermare Dante, dicendo che non può andare avanti perché, a differenza degli altri, lui è vivo. Virgilio allora interviene ancora con un’altra frase ormai passata alla storia “Vuolsi così colà dove si puote | ciò che si vuole” che sembra una roba complicata, ma significa sostanzialmente, come dicevano i Blues Brothers, che Dante è “in missione per conto di Dio”. Dunque a Caronte non resta altra scelta che lasciarlo passare.
Il canto si conclude con un terremoto, in seguito al quale il poeta sviene “e caddi come l’uom cui sonno piglia”, sarà la prima di altre volte, la più blanda, perché un uomo che si addormenta in effetti non cade svenuto in una maniera poi così violenta.
Arriviamo al punto, perché raccontate questo canto?
Be’, la prima delle mie risposte è ovvia, Dante è uno dei padri della nostra letteratura e ha scritto qualcosa che non ha eguali, né prima, né dopo di lui. In secondo luogo, voglio citare la mia alunna, R., 17 anni: “Prof, ma allora funziona veramente così quando si muore?”
Per quanto la domanda in sé possa suscitare un sorriso, non è così assurda come si possa pensare, perché Dante scrive questo poema come messaggio di salvezza per sé e per gli altri: vedere come quanto fa schifo l’inferno, secondo lui, può dissuadere la gente dal commettere gli stessi peccati che lì sono puniti ed evitarlo di conseguenza. Se R., adolescente e di un’altra religione, si preoccupa della possibilità di finire tra gli ignavi, allora la missione di Dante è compiuta, nel medioevo, così come oggi: otto secoli più tardi lui continua a fare lo stesso effetto ed è il massimo che credo un autore possa auspicare.

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