Le frasi idiomatiche non mi stanno simpatiche

Hanno un nome che sembra un insulto.

Se non ci credete, vi basti sapere che quando, a margine di un tema, annoto “Va bene, ma cerca di non usare frasi idiomatiche”, l’alunno in questione di solito mi risponde: “prof, guardi che la denuncio!”

Problematiche scolastiche e legali a parte, nelle frasi idiomatiche in realtà non c’è nulla di male, se non il fatto che in un testo scritto a volte risultano un po’ noiose. Mi spiego meglio, sono quelle che di solito chiamiamo “frasi fatte”, tipo “ho un diavolo per capello”, per intenderci.

Che poi di per sé hanno anche dei lati interessanti, perché per lo più fanno parte del gruppo retorico della metafora: “ho un diavolo per capello”, nello specifico, se preso alla lettera, indica che lo scrivente ha urgente bisogno di un esorcismo. In realtà però si tratta soltanto di un trasferimento di significato, i diavoli simboleggiano l’ira e la quantità ingente di capelli, comune sul cranio di parecchi esseri umani, afferisce al fatto che la persona in questione prova un’ira moltiplicata per un numero vicino all’infinito: fuori di sé.

Vedete? Spiegarle diventa più complicato che usarle e basta, ma il loro problema principale è che, se impiegate in un testo scritto, di solito ne abbassano il livello, rendendolo subito trito e seccante. Nessuno di noi pretende di scrivere come Dante, ma lo scopo di tutti gli scriventi, che sia di fronte a una mail, a un saggio universitario, a un romanzo, o a un messaggio di whatsapp, è sempre lo stesso: cercare di catturare l’attenzione del lettore.

Facciamo un esempio, assolutamente diffuso, nonché nazional popolare: “Quello capisce sempre Roma per toma”, la nostra capitale unita a prodotti tipici made in Italy. La derivazione è piemontese, e di dove se no? Qui parliamo di un formaggio che è vanto delle province di Novara-Cusio-Ossola, Vercelli, Biella… va be’, avete capito. La rima tra le due parole aiuta a designare qualcuno duro di comprendonio. Esistono delle varianti meno regionali, come “Prende fischi per fiaschi” o “Lucciole per lanterne”, quest’ultimo molto bello, anche se, come gli altri, inflazionato, non trovate più originale un’espressione tipo “Lampioni per lune” – dico la prima che mi è venuta in mente. Anche se in questi casi io scelgo sempre il più classico “non capisce un cazzo” che, seppur costruito su parole vuote, spesso si rivela il più limpido.

Un altro svantaggio delle frasi idiomatiche è che sono difficili da comprendere per gli stranieri, perché, per definizione, ciascuna cultura possiede le proprie. Il loro nome deriva da “idiomaticos” che significa “particolare” e infatti sono espressioni proprie e particolari del linguaggio di una nazione, di una regione o di un singolo individuo.

Provate a pensare di augurare buona fortuna a qualcuno che conosce poco l’italiano, cosa potrebbe pensare se pronunciate una frase tipo “in bocca al lupo” o, peggio, se gli auspicate di finire nell’orifizio anale di qualche cetaceo? Ve lo spiego subito, riflettete sul fatto che, se un inglese vuole farvi lo stesso augurio, articolerà l’esortativo “Break a leg”, ossia “rompiti una gamba”, diciamocelo, in questo caso, ignorando il contesto, un vaffanculo al britannico non glielo leva nessuno.


Ma è solo questione di cultura e, a dimostrazione di ciò, farò altri esempi che si restringono intorno all’ambito di una sola nazione.

Cominciamo con l’arabo (che vi risparmio in originale perché, tra le altre cose, purtroppo non lo conosco ancora), la traduzione letterale è “rompere il digiuno con una cipolla”, che sta per “ottenere meno di quanto ci si aspettava”. La frase affonda nel cuore dell’islam, pensiamo al Ramadan, ossia al digiuno, una volta all’anno per un mese, durante le ore di luce. Ho visto con i miei occhi studenti che, al tramonto o poco prima dell’alba, si sarebbero mangiati anche me. Da qui l’espressione che coinvolge l’ignara cipolla: vi pare l’alimento adeguato da consumare quando muori di fame? Detto perfetto culturalmente e metaforicamente, ma incomprensibile in altre nazioni.

In islandese, poi, abbiamo “l’uva alla fine dell’hot dog” che intende una sorpresa inattesa dopo un evento neutro – fatto in realtà opinabile, non so voi, ma io, almeno quando non ero vegetariana, preferivo l’hot dog all’uva (in realtà pure ora, eh, solo di tofu).

Dunque, se questi esempi vi sembrano incomprensibili, pensate a chi, non parlando la nostra lingua, si trova davanti la frase, da me molto amata, ma parecchio di nicchia, “Io non sono qui ad asciugare gli scogli”, con la variante “Pettinare i bruchi”, entrambe molto divertenti, per carità, soprattutto per rivendicare il fatto che io non ho intenzione di dedicarmi ad attività inutili. La loro attrattiva ai miei occhi deriva dal fatto che si tratta di immagini molto buffe, a cui se ne aggiunge in realtà anche un’altra altrettanto spassosa, ossia l’idea del tempo sprecato a “pettinare le bambole”, quest’ultima però forse non è da giudicarsi un’attività così superflua, del resto può sempre essere una buona alternativa per tenere occupati i bambini.

“Avere il braccino corto”, invece, pur rientrando nella retorica del significato, non è una metafora, ma una delle sue tante figlie, ossia una perifrasi: un giro di parole per tacerne una sola più offensiva, in questo caso essere tirchi. Che piaccia o meno – a me nello specifico non fa impazzire –, questa espressione fa bene il suo lavoro, il “braccino corto” infatti è quello troppo debole e minuto per arrivare, non solo al destinatario del denaro, ma addirittura al portafoglio. È un appellativo che in Italia spesso è destinato ai genovesi (non me ne vogliano). Non sono solita cedere agli stereotipi, ma effettivamente, a mia sorella, genovese d’adozione, devo ogni tanto ricordare che ha appunto il braccino corto perché, a dirle che è tirchia, si offenderebbe a morte, visto che è molto permalosa.

“Fare un buco nell’acqua”, per quanto strausata, non passa mai di moda. Si tratta del modo per riferirsi ai tentativi inutili, ma non solo, l’espressione riguarda anche la vergogna di fallire miseramente in un’attività che era già persa in partenza: se tralasciamo il significato metaforico –come puoi infatti pensare di bucare l’acqua? –  si tratta semplicemente di una vocazione dei matti, ma si sa che il bello della lingua è che a volte è matta pure lei.

Quindi tiriamo le somme, le frasi idiomatiche non sono inclusive in generale, mentre, nel cerchio ristretto dei parlanti di una data lingua, depotenziano il discorso. Le ragioni per non avvalersene dunque sono parecchie, anche se, ad andare alla ricerca del loro significato letterale, si trovano delle intuizioni parecchio divertenti. Quindi, come è solita ripetere l’Accademia della Crusca, fate un po’ quel che ritenete più opportuno, la lingua alla fine è una cosa strettamente personale. Solo che, per quanto riguarda queste espressioni nello specifico, il mio consiglio è di non limitarvi a loro in quanto scatole di suono, porto sicuro ad effetto di cose di cui non si conosce il significato, ma cercate di approfondire ciascuna di esse, solo così le userete in modo più originale ed efficace.

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