Chi ha inventato l’horror? Ma soprattutto, perché? Se ti diverti a spaventare il prossimo forse sei malato, o magari no. A pensarci bene, con il successo che ha avuto questo genere, crearlo non è stata proprio una scelta del cavolo.
Sì, ma com’è successo?
Be’, se vi interessa conoscere la genesi del racconto del terrore, allora siete nel posto giusto.
Cominciamo con la definizione: l’horror fa parte del macrogenere della narrazione fantastica che, in quanto tale, prevede l’irruzione in una storia apparentemente neutra di un evento irrazionale. Tutto ha inizio nella seconda metà del ‘700, quando l’Illuminismo comincia a scricchiolare e lascia spazio al Romanticismo. Di quest’ultimo i miei alunni dicono: “Il Romanticismo può sembrare qualcosa di romantico, ma in realtà non c’entra niente, perché spesso fa paura”.
Raffazzonato, ma corretto: se proprio di sentimenti vogliamo parlare, qui incontriamo tutte le facce dell’emotività, anche quelle più brutte, infatti, a discapito della ragione, nel Romanticismo prevale l’oscuro e ciò che è inspiegabile, ovviamente da lì il passo fino all’horror è breve.
1764, “Il castello di Otranto” è il capostipite dei romanzi di questo tipo. Horace Walpole è il suo autore. Si tratta di una storia medievale, popolata di fantasmi, scheletri e giganti assassini, grandi classici insomma. Non si parla ancora di horror, però, ma di “romanzo gotico”. Attenzione a questo nome fico: allude ai Goti, infatti, ossia la popolazione di origine germanica che ha terrorizzato per secoli l’intero impero romano e, spoiler, ne ha causato anche il crollo a occidente.
Dunque “gotico” evoca la paura per antonomasia, azzeccatissimo, anche se, oggi nessuno di noi possiede la sensibilità per essere spaventato da romanzi del genere, sono passati. Sì, le vicende inquietanti non mancano, ma di default sono accompagnate da altre di tipo amoroso. Di solito c’è una fanciulla in pericolo, un malvagio che, accecato dalla passione, cerca di rapirla, e anche un eroe che alla fine riesce a sconfiggere il suo antagonista, nonché sempre il lieto fine: aggiungiamoci un paio di funghetti e potrebbe essere la trama di “Super Mario”, ma per piacere.
Dobbiamo aspettare fino all’800 perché le cose si facciano più serie, quando, dai castelli infestati, i cimiteri nebbiosi, i boschi pieni di fronde oscure, il terrore si trasferisce nei luoghi della quotidianità, che è un po’ come dire: l’horror può essere dappertutto, anche a casa tua. A questo aggiungiamo che l’happy end non è più garantito o, se proprio arriva, arriva solo dopo la morte di un fracco di innocenti, ma poi, peggio di tutto, entra in gioco la cognizione del male, l’orribile consapevolezza che l’irrazionale è presente in ciascuno di noi. Bum.
Così gli scrittori appassionati di temi oscuri si sbizzarriscono e nascono dei personaggi a dir poco iconici e, a questo proposito, la sera del 16 giugno 1816 sarà decisiva.
Siamo a villa Diodati, sul lago di Ginevra, dove Lord Byron e il suo segretario e medico, John Polidori, sono in villeggiatura. I loro vicini di casa sono l’allora diciannovenne Mary Shelley, che, con la sorella Claire e quella cozza del suo futuro marito Percy, hanno fatto tappa in Svizzera durante un lungo viaggio attraverso l’Europa.
Tra i cinque si intrecciano relazioni strane, voci di corridoio parlano di alcol, droghe e orgette, ma non siamo qui per giudicare, perché, qualsiasi fosse la ragione, l’importante è solo che quella notte il gruppo decide di sfidarsi a scrivere storie gotiche. La leggenda vuole che proprio in quella circostanza fortunata nascano due capisaldi dell’horror, il primo è il mostro di Frankenstein, letteralmente apparso in sogno alla giovane Shelley, mentre il secondo è la figura del vampiro, sì, il tipo pallido che odia la luce e le croci e ama succhiare il sangue umano: non è Byron però l’ideatore, bensì Polidori che, zitto zitto, se ne esce con un libretto semplice dal titolo senza pretese di “The vampire”. Ebbravo il tuttofare che si immagina una creatura destinata a un successo senza precedenti, soprattutto grazie al lavoro di altri scrittori, scaltri come lui, che hanno saputo cogliere questa occasione di spavento. Circa ottant’anni dopo, infatti Bram Stoker consacra il vampiro, creandone la versione più mainstream, ossia il conte Dracula, ispirato alla leggenda di Vlad l’impalatore che, a quanto pare, è un personaggio storico che amava pranzare mentre guardava i nemici morire male trafitti da un palo. Le origini est-europee di Vlad spiegano anche perché Dracula si esprima con frasi tipo: “Benvenuti in mia casa” (un po’ cringe).
A metà Ottocento irrompe sulla scena la rockstar dell’horror, che è l’americano Edgar Allan Poe. La portata delle sue innovazioni è sancita semplicemente dal fatto che… be’, chi non lo conosce? Ma se la fama non bastasse, aggiungo che lui è quello che introduce il narratore impersonale, ossia solamente testimone dei fatti, il che fa più paura perché rende realistica la narrazione, e poi aggiunge nuovi temi che non fanno ridere per niente, come la sepoltura prematura, o lo sdoppiamento di personalità. Quest’ultimo tema in particolare, poi, ha avuto una particolare fortuna perché, da allora, gli autori si sono sfogati, sia per iscritto, sia più avanti al cinema, raccontando che a volte la persona di cui dobbiamo avere più paura siamo proprio noi stessi.
Emblema di questa nuova visione è “Lo strano caso del dottor Jekyll e di mr Hide” di Stevenson, autore noto per altri generi, ma che con questo libro mette un punto fermo nell’horror, mischiando la tematica dell’abuso dei poteri della scienza a quella della doppia personalità: Jekyll infatti di giorno è un dottore rispettabile, mentre di notte si trasforma in uno spietato assassino.
Il ‘900 invece è il secolo i cui i riflettori del mondo cambiano la loro direzione, puntando, anziché sull’Europa, sugli Stati Uniti. America: land of opportunity. Yes, soprattutto per l’horror che vede schierarsi tra le sue file quelli che verranno considerati i più grandi autori del genere.
Il primo è Howard Phillips Lovecraft, da me affettuosamente soprannominato “Love”. Love crea una vera e propria mitologia dell’orrore, un albero genealogico di creature aliene, ovviamente malvagie, i miti di Cthulhu, che, per quanto un po’ seriosi, hanno il vantaggio di riuscire a unire per la prima volta horror, fantasy e fantascienza.
Poi in questo elenco deve figurare per forza Robert Bloch, genio che, tra le altre cose, inventa il personaggio folle di Norman Bates (Psyco), destinato a un successo ancora più grande, se possibile, grazie a Hitchcock. In definitiva Bloch ribalterà completamente il modo di vedere l’horror (nonché i motel, nonché le amabili vecchine). Ultimo ma non ultimo tra gli innovatori di fine ‘900, c’è il mio amato Stephen King, prolifico ancora oggi. Con lui nasce il mio tipo di horror preferito, ossia quello in cui i pagliacci malefici, le matte stalker, i cani famelici, le adolescenti dotate di telecinesi, sono solo un dato superficiale in una storia che di solito ci racconta che la cosa più terrificante al mondo è semplicemente vivere.
A proposito di vampiri invece– li ho sempre amati, permettetemi una digressione in merito –, citerei
Richard Matheson con “Io sono leggenda” del 1954 che rappresenta il rovesciamento di Dracula: Stoker immaginava un unico vampiro in un modo di uomini, mentre Matheson mette in scena l’ultimo uomo sulla Terra in un mondo di vampiri. Poi c’è Anne Rice! Come dimenticare “Intervista col vampiro” in cui la questione, da orrorifica, diventa anche filosofica: che strazio essere costretti a vivere per l’eternità.

In quanto figlia degli anni ’90, devo poi per forza citare la serie televisiva “Buffy l’ammazzavampiri” che, per quanto trash ci sembri ora, ha fatto palpitare la me adolescente. Per la prima volta infatti l’eroina del plot non solo è una ragazza, ma va anche alle superiori e deve districarsi con tutti i suoi drammi da adolescente mentre combatte i demoni. In questa serie i vampiri hanno l’aspetto di persone comuni, non li riconosceresti in mezzo a una folla, se non per l’attitudine ad azzannare gole, ma, tranquilli, come gli altri, anche loro muoiono con un paletto ficcato nel cuore, la nostra Cacciatrice sa come fare. Bonus della storia? Be’ il tormentato amore tra Buffy e uno di questi vampiri che è lo strafigo David Boreanaz per cui allora, persino io, mi sono presa una cotta.
Ultimo tassello (per ora) a tema è la saga “Twilight” di Stephenie Meyer, secondo la quale non tutti i vampiri sono malvagi e sanguinari, alcuni infatti scelgono appunto di seguire una dieta vegetariana. Quest’ultimo gruppo è ben rappresentato nella versione cinematografica dall’idolo Robert Pattinson che si presenta pallido, dannato e dotato di una strana luminescenza. Nonostante qui si registrino creature notturne più evolute, le donne di questa saga purtroppo tornano nel ruolo che avevano nel romanzo gotico: vampiri e lupi mannari maschi sono protagonisti, mentre Bella (la protagonista) attende, indifesa e cagionevole, di essere salvata.
Ultima menzione del genere – poi la smetto, giuro – è l’odierno “Creepypasta”. Se ai tempi del mito si raccontavano le storie del terrore davanti a un fuoco, ora invece queste circolano su blog e social. Vi spiego meglio. Il Creepypasta consiste in una leggenda metropolitana copiata e incollata su internet, libera di viaggiare, spesso scritta in prima persona per sembrare ancora più realistica (è questo che fa paura), meglio se è una vicenda accaduta veramente all’autore, o a lui direttamente riferita: “GGGiuro, me l’ha detto mio cugggino!”.
L’esempio più eclatante in questo senso è “Slender man”, alla lettera l’uomo snello: aspetto inquietante, calvo, braccia lunghe fino alle ginocchia e mani enormi provviste di artigli. Slanderman è abitualmente dedito al sequestro di minori, specie bambini, anche se non disdegna di tanto in tanto il rapimento degli adulti. Ispirato ai racconti di Love, ma anche ai mostri de “The Mist” di King, terrorizza soprattutto perché esite sul serio, o almeno è ciò che internet ci vuole far credere.
Dunque, avrete capito che sono una grande appassionata del genere, ma rispetto anche chi non lo è per niente: l’horror è divisivo, chi lo ama follemente, chi lo detesta, non ci sono grandi sfumature. Eppure trovo istruttivo per tutti capire la paura, da dove viene, perché evocarla e soprattutto come cambia nel tempo. Ciascun individuo possiede le proprie fobie, ma la paura, in generale, ha anche a che fare con il tempo in cui viviamo e l’horror si deve adattare ad esse. Quindi in un certo senso questo genere è un buon filtro per guardare il nostro tempo e quelli che ci hanno preceduto.
E se ancora non vi avessi convito, prendete questo pezzo, pieno di spunti letterari, come un buon elenco di libri da mettere nella wishlist o magari da regalare.

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