English speakers do it better


Attualmente nel mondo si parlano 7000 lingue, un botto.

Uno dei fatti che mi affascina di più delle lingue (non cominciate a fare battutacce) è che sono distribuite in maniera trasversale, il che significa che, almeno loro, non coincidono con i confini nazionali e, al di là delle pressioni imposte o meno, ognuno parla il cazzo che vuole. Non è un caso se due terzi degli idiomi esistenti si concentrano in Asia e in Africa che, tra tutti i continenti, sono stati i più colonizzati e bistrattati e ai quali, dunque, gli europei hanno imposto diverse parlate che si sono via via sovrapposte a quelle locali. 

Se consideriamo la lingua madre (ossia, per ciascun individuo, quella appresa appena dopo i primi vagiti), vince a mani basse il cinese mandarino, per questioni demografiche, immagino. Segue lo spagnolo (il sud America regna), mentre l’inglese si trova solo al terzo posto.

Se invece esaminiamo la lingua materna e seconda lingua al tempo stesso, la classifica cambia leggermente: il cinese resta sempre al primo posto, mentre al secondo balza l’inglese. La ragione è che nel mondo, ormai da mo’ globalizzato, occorre un idioma unico, una lingua da usare nella diplomazia (Dio solo sa che potrebbe succedere se due nazioni non si capissero, già quando si capiscono fanno danni), nelle comunicazioni internazionali, dai media, nell’istruzione e su internet.

Ecco, su questo siamo tutti d’accordo, ma la domanda è un’altra, ossia perché proprio l’inglese?

Potremo citare vari motivi, di natura grammaticale, linguistica, sociale e storica, quindi, inutile dirvelo, mettetevi comodi.

Siamo nel mezzo della Prima Guerra Mondiale, le nazioni europee, sia in vantaggio, sia in svantaggio, sono distrutte: mantenere l’esercito in guerra costa un sacco, tutte le industrie ormai sono riconvertite in produzione di armi, quindi i civili muoiono di fame: distruzione dappertutto, l’Italia (è il 1917), disperata, recluta i ragazzi del ’99. Fate un po’ i conti.

In questo clima gli USA fanno finta di niente, finché, non inizia una guerra navale nell’Atlantico. I sottomarini tedeschi circondano la Gran Bretagna per bloccare qualsiasi tentativo altrui di rifornirla. Il motto è: che gli inglesi muoiano di fame e di stenti. In sostanza la Germania colpisce tutto ciò che si muove in quei mari e, nella foga di sparare, affondano anche qualche nave statunitense che passa di lì per caso.

Così gli USA, incazzati neri, decidono di entrare in guerra a favore dei paesi dell’Intesa e, in quattro e quattr’otto, la guerra finisce: l’impero Austro-Ungarico viene sconfitto dall’Italia a Vittorio Veneto, mentre gli Stati Uniti, a fianco di Francia e Inghilterra, accerchiano la Germania via mare, per terra e in cielo. Altra opzione dunque non resta, se non la resa tedesca.

Alla fine, come vi ho anticipato, vincitori e vinti sono economicamente e moralmente distrutti, non a caso è il presidente americano Wilson che prende le redini dei trattati di pace. È il momento di gloria degli Stati Uniti: mentre loro non calcolano alcun danno, la vecchia Europa è definitivamente con le pezze al culo, e i riflettori, da sempre puntati su di lei, si spengono all’improvviso quando scattano le infinite catene di debito. Gli Usa prestano a tutti i Paesi il denaro per le ricostruzioni, perfino a quella stronza della Germania, e da quel momento il mondo intero dipende dall’economia americana. 

Così, piano piano, l’inglese comincia a farsi strada nella testa di chi sogna un mondo migliore, ma non basta ancora. Infatti, quando Wilson ritorna in patria tutto tronfio, gli americani gli rimproverano di non essersi fatto i cazzi suoi: in generale non apprezzano il coinvolgimento del nuovo continente con i problemi europei, dunque, per ringraziarlo del lavoro svolto, lo trombano alle elezioni, in favore del repubblicano Harding.

La nuova parola d’ordine è “isolazionismo” e manco ve la sto a spiegare, perché basta dire che gli Usa non aderiscono nemmeno alla Società delle Nazioni che, per altro, sono stati loro stessi a inventare. Di fatto però, mentre in Europa si sviluppano le dittature, gli Usa diventano la nazione più ricca economicamente e più potente dal punto di vista militare. Insomma, mentre gli europei stanno ancora capendo come far funzionare un carro armato, le industrie americane lavorano a pieno regime e producono armi come se non ci fosse un domani (perché non si sa mai).

Così nasce il cosiddetto mito americano, l’american way of life, uno stile di vita da ammirare e imitare, modello per tutto l’occidente. Non c’è da stupirsi che anche la lingua di questo paese all’avanguardia diventi quella da imitare.

Va be’, diciamolo, in quegli anni repubblicani, l’America si macchia di nefandezze di ogni genere, fino ad arrivare al crollo della borsa di Wall Street nel ’29, con il conseguente crack di tutte le economie europee (perché tutti i Paesi, come le tessere del domino, erano legati agli Stati Uniti). Ma andiamo avanti.

Quando scoppia il secondo conflitto mondiale, l’Inghilterra rimane quasi subito isolata, perché l’Italia di Mussolini si è data da un po’ e Hitler ha subito invaso la Francia, redendola un alleato ko in tempo zero. Così il Regno Unito, seppur brancolando nel buio, non si fa intortare dalle lusinghe naziste e continua a combattere contro la Germania (per lo più vincendo, tra l’altro).

Gli Usa invece proseguono con la loro politica isolazionista fino all’attacco a Pearl Harbor. Avrete sicuramente visto il film con Ben Affleck, quindi non approfondisco. Vi basti sapere che a quel punto Roosevelt, allora presidente americano, insieme a Churchill, primo ministro inglese, si incontrano segretamente a bordo di una nave da guerra e si ripromettono di salvare il mondo dalle dittature. E, con tutti i difetti di queste nazioni, di fatto ci riescono: due anglofoni che cambieranno, non solo il destino della pace, ma decreteranno anche la lingua più famosa al mondo.

Lo sbarco in Normandia per liberare la Francia, l’approdo in Sicilia per salvare l’Italia: con queste semplici mosse l’inglese diventa ufficialmente la lingua della liberazione, quella che si oppone alla durezza del tedesco (anche se, ironia della sorte, le due vengono dallo stesso ceppo linguistico).

In Italia inizia la guerra partigiana, la lotta, dopo la defezione del re, contro quei boomer ancora rimasti dei nazifascisti. E molti degli scrittori che conosciamo, tra cui il mio amato Fenoglio, sanno bene l’inglese e, tra un sabotaggio e l’altro, si chinano sui loro scrittoi per tradurre gli autori più importanti della cultura anglosassone, perché allora, anche parlare inglese significa resistere.

Dopo la liberazione tutti hanno solo da baciare dove passano da USA e Inghilterra ed è così che l’inglese diventa imprescindibile. Piano piano si trasforma nella lingua ufficiale della comunicazione e degli affari e perfino il mondo della scienza, che da sempre è stato lo zoccolo duro fedele al latino, comincia a cedere (ne sa qualcosa mia cugina che è osteopata, una disciplina relativamente recente, che, a differenza di altre più codificate nel tempo, si esprime prevalentemente in inglese).

Poi con il boom dell’informatica e la diffusione di internet, l’inglese diventa inarrestabile. È così che si impone come lingua veicolare, ossia utilizzata per la comunicazione di persone di diversa lingua madre. Non so voi, ma, tranne a Parigi dove forse sono un po’ troppo fissati con il francese, ovunque io vada, con l’inglese me la cavo.

Le ragioni di questo successo però non sono solo storiche, perché, prima di tutto, vince la semplicità. Ai tempi in cui il latino perde presa e gli europei tra loro non si capivano, il francese diventa lingua comune, ma non fa mai breccia nel cuore di tutti, troppo complicata, troppo d’élite.

L’inglese invece è casereccio, poche regole, verbi – che di solito sono lo scoglio più grande di una lingua – ridotti all’osso. Non esiste il congiuntivo, ad esempio, il condizionale si può costruire sostanzialmente con l’aiuto di un verbo modale, smart, il lessico non è ampio come quello del fratellone tedesco e, se hai il coraggio di buttarti un po’, puoi parlare anche di argomenti complessi, senza sapere così bene la grammatica.

Sì, la sto facendo semplice e, badate bene, non è che io sia un fulmine con l’inglese, ma vi basti sapere che, per la naturale carattere della nostra lingua, gli italiani dovrebbero fare meno fatica a imparare il francese e il rumeno piuttosto che l’inglese, ma alla fine non va così e, scuola o no, un po’ di inglese alla fine lo mastichiamo tutti.

L’inglese ha inoltre come vantaggio la permeabilità di vocaboli stranieri. Analizziamo l’espressione, se qualcosa è permeabile, significa che lascia passare, e l’inglese è così, permette l’ingresso al suo interno di vocaboli che vengono di altri Paesi ed entra ben camuffato negli altrui idiomi. Quante parole inglesi utilizziamo ogni giorno, anche senza rendercene conto? In Italia li chiamiamo “anglismi”, ma si presentano puntuali nel nostro quotidiano, al punto che non troviamo un sostituto autoctono altrettanto efficace. 

Insomma, perché scrivere questo pezzo? Perché a volte non dobbiamo accontentarci di sapere che le cose sono così e basta, nonché studiare l’inglese, in classe o durante i sonnolenti corsi di aggiornamento, solo perché ormai è diffuso, punto.

Io spingo sempre i miei alunni a domandarsi il motivo delle cose, ma le ragioni sono utili agli adolescenti così come ai grandi, dunque spero che questa piccola delucidazione sia stata utile per comprendere che le cose non succedono mai per caso e aver voglia di sapere i perché è l’unica maniera per essere davvero informati. Viva gli inglesi e gli anglofoni!

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