Mangiare figli

Non serve una piramide alimentare per capire che il cannibalismo non rientra nella dieta mediterranea, senza parlare poi del fatto che è pure un tabù universale, cioè una cosa che, anche se non sai bene il perché, non si fa e basta.

Per questo specifico caso però vi basti sapere che, per motivi sanitari, alimentari, nonché culturali, mangiare i propri figli può considerarsi ben peggio di un puro atto di antropofagia.

Quindi Hannibal Lecter, scansati, la letteratura infatti è piena di esempi, non solo di mangiatori di uomini, ma soprattutto di padri che fanno dei propri figli un pasto.

Partiamo proprio dal principio, ossia da Crono, uno degli avi della mitologia greca che, in scala, fa tutto il peggio che si possa fare: evira suo padre, si sposa con la sorella e poi, non contento, comincia a mangiarsi i figli per fare in modo che nessuno lo spodesti. Crono è il tempo per eccellenza e se tu il tempo lo passi a masticare discendenti, mi sa che non sei a posto. Per fortuna alla fine arriva Zeus, unico pargolo scampato al massacro, che riesce a toglierli il trono da sotto il culo. Così in Grecia si ricominciano a mangiare cose normali.

Il problema è che, se la storia del tempo e del mondo parte così, non è che possiamo sperare che alla fine vada tutto bene.

Non è un caso se basta spostarsi un poco più in là per avere un altro esempio di divoratore di figli nella letteratura. È questo il caso di Tieste, raccontato prima da Eschilo e poi da Seneca, insomma due che con il macabro andavano a nozze.

In realtà Tieste ha una sorta di attenuante per le sue azioni. Certo non si comporta bene, si fa eleggere re di Tebe con l’inganno, a discapito di suo fratello Atreo e, come se non fosse abbastanza, si fa pure la cognata, Aerope, la moglie di Atreo appunto. Scoperti i suoi magheggi, Tieste viene mandato in esilio e Atreo regna felice su Argo, ma mai gli andrà giù l’essere stato cornificato dal sangue del suo sangue. Così, quando Tieste torna in patria, Atreo gli tende una bella imboscata. Innanzitutto gli ammazza i figli e poi lo invita a cena, dunque Tieste crede di mettere fine ai litigi con un bel pranzo in famiglia, ma non sa che in realtà sta mangiando i propri discendenti. Tragedia.

Tutt’altra storia però ci racconta il medioevo con il conte Ugolino.

Ovviamente è Dante, grande campione del suo tempo, a parlarci di questo personaggio. La prima volta in cui incontriamo Ugolino è nel XXXII canto dell’Inferno: siamo in uno dei cerchi più bassi, dove sono puniti i traditori, in questo caso i traditori della patria. La loro pena è essere conficcati fino al collo nel ghiaccio del lago Cocito e lì manco si può piangere, perché le lacrime, rotolando lungo le guance, diventano di ghiaccio a loro volta. Dante incontra questi peccatori alla fine del canto, nell’Antenora, e qui come al solito, il pellegrino nota due anime in atteggiamenti particolari, dunque subito vuole saperne di più. Uno dei due spiriti i trova sopra all’altro “sì che l’un capo a l’altro era cappello”, dice. Fondamentalmente uno sta rosicchiando la testa all’altro. Qua vediamo in azione uno dei talenti cinematografici dell’Alighieri: ci mostra una scena gore, ma senza rivelarci l’identità dei due protagonisti. Il lettore dunque rimane in sospeso e dovrà aspettare il capitolo successivo per capire chi siano questi individui.

“La bocca sollevò dal fiero pasto | quel peccator, forbendola a’ capelli | dal capo ch’elli avea di retro guasto”.

Che grande Dante, lui, mago della suspence, ci lascia in attesa ancora un attimo, con una dislocazione a sinistra: infatti inizia il verso con il complemento oggetto, ossia “la bocca”, il mezzo dell’orribile atto, per poi posporre il soggetto il più in là possibile (il peccator). Il “fiero pasto” poi non è niente di orgoglioso, ma è un’espressione che segue pedissequamente la sua etimologia, è qualcosa di ferino, da bestia, una roba feroce.

Così, come l’anima smette di mangiare la testa altrui, ecco che siamo pronti per le presentazioni. Il cannibale è il conte Ugolino della Gherardesca, appartenente a una delle più importanti famiglie ghibelline toscane. In sostanza colpevole di aver tradito la propria fazione politica per vantaggio personale. E, diciamolo, questa cosa a Dante sta sul cazzo perché lui stesso, per motivi politici, è stato mandato in esilio. Nonostante la naturale avversione verso questo personaggio, Dante però riesce a farne un ritratto dignitoso, mostrando, sia la naturale propensione alla vendetta del peccatore, sia il suo lato umano.

Ugolino, colpevole di poca lealtà nei confronti della città di Pisa, in vita viene arrestato, e l’arcivescovo Ruggieri (colui che lì all’inferno viene rosicchiato), ordina di incarcerarlo nella Torre della Muda, insieme ai figli e ai nipoti.

Ugolino dice: “Tu vuo’ che io rinovelli | disperato dolor che ‘l cor mi preme | già pur pensando pria ch’io ne favelli”. A parte il fatto che si tratta di una citazione alta dell’Eneide, qui Ugolino appare come un semplice essere umano che fa fatica a riportare alla mente ciò che nella vita gli ha fatto più male. Per rendere la storia più lacrimevole, Dante non cita i nipoti e racconta di Ugolino in galera solo con i figli, poi bara sull’età dei figli stessi, li rende più piccoli cosicché sembrino più innocenti e degni di pietà.

Le abilità di Dante-regista si rivelano anche nei versi successivi: dopo un sogno terrificante e mezzo-premonitore, infatti, il lettore ancora non ha coscienza di quel che succede, mentre Ugolino ci riferisce soltanto che, dopo qualche giorno, la porta della prigione viene inchiodata. Il ragionamento sta a noi, se la porta non si può più aprire, nessuno ha intenzione di portare da mangiare ai prigionieri.

Passa ancora qualche giorno e tutti sono stremati, i bambini piangono per la fame, a un certo punto, per il nervoso, Ugolino si morde le mani, ma i bimbi equivocano e credono che lui lo faccia per la stessa fame che attanaglia anche loro. Dunque pronunciano una frase importante, “Padre, assai ci fia men doglia | se tu mangi di noi: tu ne vestisti | queste misere carni, e tu ne spoglia”. Non c’è bisogno di una parafrasi, vi basti sapere che è una gran metafora che ha a che fare con l’abbigliamento. Le spoglie sono le membra umane, ma anche un verbo: come ci hai vestiti di questo corpo, tu ci puoi spogliare. Un invito non troppo implicito a nutrirsi di loro.

Nel giro di quarantott’ore i piccoli muoiono. Ugolino invece è ancora vivo, ma cieco (perché non nutrito) e tasta i cadaveri dei congiunti. Lui sa che è la fine e, quando è la fine, per sopravvivere, si fanno cose che normalmente apparrebbero fuori di testa,

Avete mai visto quei film in un cui un aereo precipita in su una montagna innevata? Ce ne sono un botto e alla fine i sopravvissuti, seppur dopo grandi dissidi, si alimentano dei compagni morti.

Qui non è tanto diverso.

Ugolino, al cospetto di Dante, pronuncia una frase emblematica: “più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno”. Dante, mascherina, è sempre molto morigerato quando si tratta di faccende scabrose. Famosa, molto più su nell’inferno, è la frase “da quel giorno non leggemmo più avante”, riferita a Paolo e Francesca che si baciano davanti a un romanzo, ma, da allora, inutile dirvelo, non hanno più letto un granché. Se il pudore di Dante colpisce quando si parla di sesso, ora, di fronte a una faccenda molto più seria, non potrà che comportarsi in modo analogo.

Analizziamo la frase messa in bocca a Ugolino, è una delle più misteriose della Commedia: “più che il dolore (per i miei bimbi morti) mi uccise la fame”, oppure, molto più cruda, “la fame fu più forte del dolore”, il che significa che Ugolino, sì, si mangia i figli. Dante non ce lo svela, ma è indicativo il fatto che, appena finito di parlare, il protagonista di questo canto riprende a fare ciò per cui era individuato nel canto precedente, ossia divorare la testa del suo avversario.

Non sappiamo per certo dunque se Ugolino si sia nutrito dei suoi figli per sopravvivere, ma cinematograficamente tutti gli indizi ci spingerebbero a pensarlo.

Ugolino del resto viene mostrato in tutte le sue sfaccettature, quella feroce, che mangia il cervello del suo avversario per vendetta, e quella di padre, in apprensione per i figli che, innocenti, muoiono di fame.

E voi che ne pensate? Non a proposito di mangiare i figli, quello mi pare universamente chiaro, ma a proposito di ciò che ha fatto Ugolino. Io ritengo che la regia sia molto chiara, ma d’altra parte abbiamo imparato a provare empatia per chi, precipitato, si ciba dei suoi compagni di viaggio e quindi forse dovremmo riservare la stessa indulgenza per il conte Ugolino. Dante del resto, nonostante tutte le inimicizie, ci è riuscito. 

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