A Sanremo siamo tutti impazziti per Lucio Corsi, anche se è arrivato secondo. Anzi, forse l’abbiamo amato anche per questo: la sua canzone parla infatti di chi è destinato a non essere mai primo e qualche modo la classifica ha confermato il senso delle sue parole. Secondo, sì, però all’Eurovision, la fiaba perfetta per chi, come lui, “voleva essere un duro”.
Spesso mi chiedo come si comporterebbero gli autori o i personaggi letterari del passato guardando al nostro mondo. In questo caso mi sono immaginata il protagonista di un famoso romanzo che, sprofondato nel divano, urlerebbe volentieri alla televisione “Volevo essere un duro, però non sono nessunooooo”. E qui i giochi di parole si sprecano se vi rivelo che sto parlando di Mattia Pascal, meglio conosciuto come il “Fu Mattia”.
Siamo all’inizio del ‘900 quando Luigi Pirandello si salva letteralmente la vita e mette una pezza ai suoi guai economici pubblicando un romanzo destinato a diventare uno dei più famosi del suo secolo, anzi, un “antiromanzo” che fin dal titolo si propone di scardinare tutto ciò che abbiamo imparato finora su questo genere. A partire proprio dal titolo, Pirandello si prende gioco della moda (tutta ottocentesca) di titolare il libro con il nome del protagonista. Pensiamo a Madame Bovary, Oliver Twist, Robin Hood, eccetera. Qui il nome del protagonista c’è, ma preceduto dal passato remoto, il tempo verbale per eccellenza delle cose che erano e non sono più. Non ve lo sto neanche a dire quanto sia dunque anticonformista e punk questa scelta.
Mattia proviene da una famiglia benestante che disgraziatamente ha perso tutto. Abita a Miragno, paese di provincia in Liguria e si trova costretto a vivere una vita (“vivere la vita è un gioco da ragazzi”) che non gli appartiene, che non crede di meritare. Povero in canna, sposato con tal Romilda, una donna che non lo entusiasma particolarmente – niente farfalle nello stomaco per il nostro Mattia. Come se non bastasse, ha pure in casa la suocera e, anche se io non amo badare agli stereotipi, la vedova Pescatore è un’autentica stronza, il prototipo della suocera rompiscatole e tiranna.
Insomma, la vita di Mattia fa sostanzialmente schifo, ma lui è bloccato in un loop, la situazione gli sta stretta, ma è per lo meno una certezza, dunque non ha il coraggio o la forza di cambiare.
“Quanto è duro il mondo | per quelli normali | che hanno poco amore intorno | o troppo sole negli occhiali” commenterebbe Lucio Corsi, mentre Mattia se ne sta immobile nel suo nido che è anche prigione, a sognare tutto ciò che potrebbe essere, ma non è.
“Volevo essere un duro | che non gli importa del futuro | un robot | un lottatore di sumo | uno spaccino in fuga da un cane lupo.”
Ok, voi piccoli cuori che mi seguite fedelmente ora direte: “Prof, ma la forma corretta è ‘avrei voluto essere un duro’, periodo ipotetico dell’irrealtà, che non è, ma neanche sarà”.
Sì, avete ragione, ma non sono qui a dirvi che Lucio si inchina a una questione meramente di metrica (la forma corretta non ci sta nel verso), perché si tratta di linguaggio mimetico. Come la più celebre “tuta mimetica”, un linguaggio di questo tipo imita la realtà e, senza troppe parole, ci proietta direttamente nel mondo di un Lucio ragazzino che esprime i suoi desideri con l’assolutezza del modo indicativo. Stesso discorso per il “che” polivalente: non “che non gli importa del futuro”, ma “al quale”. L’urgenza di denunciare il disagio si esprime attraverso lo sfrondamento di alcuni passaggi. E come vi ripeto sempre: sticazzi le regole della lingua italiana, l’importante è come queste parole vengono utilizzate per comunicare.

Comunque, tornando a Mattia, anche se preso male, un giorno si trova davanti a un’opportunità irripetibile: sul treno, tornando dal casinò di Montecarlo, legge sul giornale la notizia della propria morte. No, non siamo in un film di David Lynch e neanche davanti a un fenomeno paranormale, è solo che un cadavere, trovato in un fosso a Miragno, viene identificato come il suo. A quel punto la testolina di Mattia di mette in moto: se tutti lo credono morto, finalmente potrà smettere di essere quell’inetto sfigato che è sempre stato, ha la possibilità di cambiare identità, di essere un duro.
“Volevo essere un duro | che non gli importa del futuro | un robot | medaglia d’oro di sputo | lo scippatore che t’aspetta nel buio | il Re di Porta Portese | la gazza ladra che ti ruba la fede.” Il gioco dell’enumerazione è sempre efficace, perché, tramite un breve elenco, Lucio ci racconta la lunga storia di tutte le sue identità impossibili.
Per Mattia essere un “duro” significa semplicemente essere come quelli accettati e integrati nella società. Dunque ora può dismettere i panni di uno banalmente “normale”, e prova a indossare per una volta quelli di un vero duro, ossia Adriano Meis. Adriano è un viaggiatore, un filosofo, un saggio, uno di quelli che, quando parla, lo ascoltano tutti: decisamente un bel salto di qualità per un uomo grigio e insoddisfatto.
Adriano soggiorna prima a Milano, poi a Roma, presso la pensione Paleari. Si innamora pure della figlia dell’albergatore, Adriana (coincidenze? Io non credo). Va tutto liscio insomma, se non fosse che la sua farsa dura ben poco perché una serie di eventi, tra cui l’imminente matrimonio con Adriana, smascherano la sua bugia: lui non può vivere da duro, perché non ha i documenti di un duro. Per l’anagrafe, lui è ancora quello di prima.
A quel punto non gli resta che fingere una seconda morte, la sua nuova identità non gli potrà mai calzare bene.
“Però non sono nessuno | non sono nato con la faccia da duro | ho anche paura del buio | se faccio a botte le prendo | così mi truccano gli occhi di nero | ma non ho mai perso tempo | è lui che mi ha lasciato indietro.”
L’ormai ex Adriano, nonché ex Mattia, torna a Miragno e si aspetta di riprendere per lo meno la sua vecchia identità (piuttosto che niente è meglio piuttosto), ma si accorge che, appunto, il tempo l’ha lasciato indietro.
La moglie, infatti, si è messa con Pomino che, grande classico, oltre a essere stato il migliore amico di Mattia, è un duro per davvero, non qualcuno che si finge tale. Dunque, forse anche per questo, Mattia rinuncia ai diritti che in teoria avrebbe sul suo matrimonio.
Possiamo dirlo? Va peggio di prima.
Ora non ci resta che l’amaro epilogo, nella biblioteca del paese, dove l’identità del nostro protagonista non sta più in quello che lui è, semmai in quello che più non è. Non più Adriano, non più Mattia.
Per Lucio Corsi, fortunatamente, invece le cose vanno diversamente, perché, anche se abbagliato dalle luci di Sanremo, è sicuro nell’affermare: “Io volevo essere un duro | però non sono nessuno | non sono altro che Lucio | non sono altro che Lucio”. Che non è rassegnazione, semmai forza: io mi piaccio così, non vorrei essere un altro ora, nemmeno uno di quelli degli elenchi stilati prima. E forse è un bene amarsi per quello che si è e non prendersi troppo sul serio (non a caso, nella serata cover, canta in duetto con Topo Gigio), altrimenti come minimo finisci insoddisfatto o, peggio, come Mattia che, pur di essere qualcun altro a tutti i costi, si ritrova semivivo in un tempo vuoto, a portare ogni giorno i fiori alla propria tomba.

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