Tutti gli sbatti di Petrarca

Francesco Petrarca aveva un sacco di sbatti, come direbbero oggi gli adolescenti.

Lui era uno serio e misurato, studiava un sacco e poi gli piaceva il latino, anche se viveva in un’Italia post Dante in cui cominciava a diffondersi la moda del volgare in letteratura.

Lui pensava che avrebbe sfondato con il latino, appunto, la lingua più figa, quella con cui si scrivono le opere più importanti, le immortali. E sono rimaste, per carità, quelle scritte da Francesco, solo che, ironia della sorte, tutti di lui ricordiamo solo il “Canzoniere”, la sua raccolta in volgare.

Che poi non è che Petrarca non tenesse al Canzoniere: ci ha passato sopra tutta la vita, a scrivere e limare – e lui è campato fino a settant’anni. Gli dà il titolo di “Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta” che non è un titolo acchiappalike, diciamolo. Francesco però non è matto, non è neanche uno che se la tira, soltanto lui voleva sottolineare, come sempre, l’importanza del latino, anche quando si parla di frammenti di cose in volgare o, peggio, di cose di cui ci si vergogna.

Poi, nel Cinquecento, quando lui è ormai strafamoso, il suo modo di scrivere diventa un modello, quasi un genere, lo chiamano “Petrarchismo” ed è diffuso quanto la trap, per intenderci. La stampa è stata inventata da poco e il suo libro è uno di quelli che va di più, allora, per comodità, o forse per esigenze di marketing, la sua raccolta passa alla storia con il nome di “Canzoniere”, così come la conosciamo ora.

Questa però è un’altra storia. Cerchiamo di procedere con ordine.

Lo sbatti più grande della vita di Petrarca è un altro, ossia Laura.

È il 6 aprile del 1327, siamo ad Avignone, nella chiesa di Santa Chiara ed è pure Pasqua (coincidenze?) quando Francesco incontra per la prima volta la fantomatica Laura, la donna che amerà per tutta la vita.

Segni del destino anticipano la celebre relazione, scritto nelle stelle questo amore, quanto quello di un altro Francesco, Totti, e Ilary Blasi, anche se, almeno finché è durato, non altrettanto fortunato.

Innanzitutto Laura a un certo punto muore, alla peste del Trecento scamperanno in pochi, e poi Francesco e Laura non hanno una vera e propria relazione.

Petrarca è uno dei primi friendzonati della storia, anche se lui probabilmente vomiterebbe a sentire questo neologismo (lui era per poche parole, chiare, semplici, usate in tutte le loro possibilità linguistiche), ma forse, proprio per questo, più vicino a noi.  

Noi contemporanei facciamo fatica a capire l’amore di due come Dante e Beatrice, per esempio, perché Beatrice è tutto spirito, è eterea, non ha una dimensione fisica, è un mezzo per arrivare a Dio. È il medioevo, del resto, e parlare di donne è un problema.

Per Petrarca però le cose stanno diversamente, anche se pure lui è un uomo del medioevo, Laura esiste, è soggetta al passare del tempo, invecchia, a volte pure male, ed è descritta per particolari che permettono a noi lettori di comporre un ritratto: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”.

Ma l’aspetto che la rende più affine, comprensibile per la Generazione Z, è il suo atteggiamento ambiguo.

Non si capisce se è Petrarca a illudersi o è lei che lo tiene sulla corda: “Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,/né per suo mi riten né scioglie il laccio”. Una prigione con la porta né aperta né chiusa a chiave, il tormento peggiore per qualsiasi innamorato in tutti i tempi e le ere.

Forse lei lo vedeva solo come un amico, chissà, fatto sta che Petrarca si danna un sacco per questa storia. E ci scrive un libro, come dicevo prima, che non è solo su Laura, ma è una specie di diario in poesia, un’autobiografia lirica del suo animo.

E ci mette dentro tutti quegli sbatti di cui vi parlavo prima, il suo linguaggio piano e un sacco di antitesi, perché l’antitesi è la figura retorica di chi è rotto dentro, di chi sta così male da ritrovare se stesso solo negli opposti e nei paradossi. “Pace non trovo,/ et non ò da far guerra;/ e temo, et spero;/ et ardo, et son un ghiaccio”

E Petrarca stava così male non solo perché Laura non l’avrebbe mai amato come lui desiderava, ma anche perché era un uomo lacerato dal suo tempo: stava con un piede nel medioevo e uno già nel rinascimento. Da una parte, Dio, Chiesa, peccato, dannazione eterna, dall’altra, classici, bellezza, uomo, io. E per tutta la vita si sente lacerato da queste due forze opposte, da una parte c’è Dio, la spiritualità e l’umiltà, dall’altra Laura, l’amore terreno, la gloria poetica (che male non fa) e lui non sa cosa scegliere.

Sta da schifo e si preoccupa di cosa dirà la gente, si vergogna di soffrire così tanto per amore e, diciamocelo, pure noi ci vergogniamo ancora oggi.

“C’è gente che muore di fame e tu soffri per quella?”

Be’, a chi la pensa così, riferisco che io mi accodo a Petrarca nel dire che il dolore è dolore, ed è uguale nel Trecento, così come nel 2022, soprattutto per quelli come noi che, a volte, dall’amore si sentono perseguitati.

“Ma pur sì aspre vie né sì selvagge/ cercar non so ch’Amor non venga sempre/ ragionando con meco, et io con lui.”

Che significa che non hai scampo, puoi andare dove ti pare, anche in Alaska, ma l’Amore, quell’amore lì tossico e pericoloso, ti troverà sempre.

PS: alla fine della sua vita Petrarca, tra Dio e Laura, sceglierà Dio, come dimostra l’Inno alla Vergine con cui chiude la raccolta. Non fategliene una colpa però, era il 1374, era vecchio (per il tempo almeno) e la sua vita è stata davvero uno sbatti.

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