Mi piace spesso dire che saper scrivere è un dono degli dei. Non ha a che fare con le altre facoltà mentali, né con gli errori di ortografia. È più una questione di gusto, Pinketts lo chiamava avere “il senso della frase”.
“Il senso della frase è un privilegio poiché, se lo possiedi, permette alla tua bugia di essere, se non creduta, almeno apprezzata”
Purtroppo nessuno ti può insegnare a scrivere, così come a raccontare belle bugie.
Esistono però alcuni trucchetti, non diversi da quelli di un prestigiatore, che aiutano a rendere la forma scorrevole e il contenuto chiaro.
Si tratta di numeri di magia validi per tutti, non solo per gli studenti costretti a soffrire sui temi in classe. Possono essere applicati a una mail, un ricorso, una tesi, un biglietto di condoglianze, una relazione. Insomma, sono strategie per la corrispondenza e la scrittura quotidiana, a cui oggi tutti noi siamo chiamati.
Quante volte ci troviamo davanti alla pagina bianca di gmail, sapendo perfettamente cosa dobbiamo dire, ma senza idee su come esprimerlo? Bene, con i seguenti accorgimenti sarà tutto molto più semplice.
Partiamo dalle fondamenta, ossia la sintassi. “Sintassi” è una parola difficile, come sempre, che però indica una questione elementare, ossia le frasi, i rapporti tra i mattoni che costruiscono i nostri periodi. I mattoni alla base di una casa devono essere solidi, certo, ma non macigni, altrimenti il nostro lettore, oltre a rompersi le palle, non capirà il nostro messaggio: un’abitazione invivibile.
Dunque la prima buona norma è non costruire periodi troppo lunghi. Che intendo? Evitate una pioggia di frasi legate principalmente dalla virgola, da congiunzioni subordinanti e da frasi incidentali (che, come suggerisce la parola stessa, sono delle proposizioni che ne interrompono un’altra come un trauma). Non è deprecabile a prescindere questo modo di comunicare, intendiamoci. Manzoni scriveva così: i suoi periodi sono delle scale che il lettore percorre pazientemente fino ad arrivare all’agognato punto.
Siccome, però, nella vita quotidiana non dobbiamo vergare la nuova versione de “I promessi sposi”, ma ci basta anche solo incazzarci con servizio clienti della Vodafone, forse sarà meglio cercare una soluzione più agile.
Usate i punti, tanti. Scrivete frasi brevi, essenziali. Questo tipo di costruzione si chiama “parattattica giustapposta” e non c’è nulla di male in lei, non significa che lo scrivente è un ignorante, anzi, al massimo è uno molto scaltro.
Le storie di cui diciamo “scorre da Dio” sono quelle costruite proprio con questa sintassi: il lettore non riesce a staccarsi dalla pagina. Ecco, vi ho appena fornito l’adesivo per tenere un eventuale datore di lavoro incollato al vostro CV. Sono sicura che in questo modo, tra i tanti candidati che non scrivono mail, ma romanzi ottocenteschi, voi risulterete quello su cui puntare.
Un altro accorgimento riguarda il lessico, ossia la scelta delle parole. Buona norma è evitare il più possibile il termine “cosa” perché è generico e non arriva al punto. Le parole della lingua italiana sono molte, quindi schiviamo subito la via più facile, anche perché talvolta i sentieri battuti – e ce lo insegnano le favole – nascondono in fondo il lupo cattivo.
“Cosa” ha milioni di sinonimi: una cosa può essere un pensiero, un’intenzione, una questione, una faccenda, un problema, un augurio… insomma, l’elenco è lungo ed è facile cogliere il nodo. Chiediamoci sempre: di che stiamo parlando? Qual è la vera natura della “cosa” che abbiamo in testa?
In questo modo sarete più limpidi e sintetici. Ricordiamoci sempre: il primo obiettivo è non rompere le palle al lettore.
Se il nostro scopo è essere efficaci come schegge, allora buona norma è potare tutto ciò che inutile. Anche gli elementi più piccoli possono essere sfrondati, perché, alla lunga, suonano ridondanti. Immaginiamoci di essere un giardiniere che cesella finemente il suo bel cespuglietto.

Quindi, ulteriore accorgimento, ma serio, è la punteggiatura.
Ho già parlato precedentemente dei punti di sospensione. Ora invece vorrei lanciare un appello, anzi un paio. Prima di tutto lasciate stare il punto e virgola, l’ultimo ad usarlo è stato D’Annunzio e da allora di tempo ne è passato a sufficienza.
Oggi il punto e virgola suona paraculo: scelgo il punto o la virgola? Mah, facciamo un po’ e un po’. Oppure appare vintage, come un capo che potresti trovare nell’armadio della tua bisnonna: passato di moda dal 1930.
Secondo appello, vi scongiuro, limitate il punto esclamativo, specie nelle vostre mail. Il punto esclamativo ha lo scopo di porre enfasi su ciò che scriviamo, ma in realtà la vera passionalità, la veemenza, è data dal contenuto che stiamo comunicando, non dalla punteggiatura.
Il punto esclamativo, la maggior parte delle volte, suona inutilmente aggressivo: “Aspetto un suo cortese riscontro!” No, vi prego, una frase di questo tipo è anche peggio, perché è passivo-aggressiva.
“Mio figlio non meritava 4 all’interrogazione di storia!”: la scelta stilistica del genitore iperprotettivo mi fa venire subito voglia di ingollare una boccia di Lexotan.
Per non parlare del fatto che il peggio del peggio è usare più di un punto esclamativo: “Cazzo, quanto ti amo!!!”: non so voi, ma davanti a una dichiarazione d’amore così violenta io faccio i biglietti per Siberia, solo andata. Per piacere, non sottoponete nessun destinatario a un messaggio così facinoroso.
Un’ultima indicazione riguarda i saluti, quindi gli scritti come mail e missive affini. Esistono tre soluzioni per il medesimo congedo e solo una di quelle che proporrò è sbagliata:
Buon fine settimana
Buona fine settimana
Buon weekend
Avete indovinato? Quello errato è proprio quello che sembra più corretto, ossia “Buon fine settimana”. Il motivo è semplice, il fine è lo scopo di un’azione, non la sua conclusione. Per questo, al contrario, la forma corretta è “Buona fine settimana”.
Sì, lo so, è una roba un po’ radical chic, ma ogni tanto ci si può concedere anche di esserlo.
Nel dubbio, visto che non temo i forestierismi, preferisco augurare “Buon weekend”.
E allora buon weekend, dalla vostra pop prof.

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