Federico II per me è un grande, non solo perché era conosciuto con l’appellativo “Stupor mundi” ossia “Meraviglia del mondo”, ma perché la lingua che parliamo oggi si deve in origine a lui (anche se in realtà poi noi diamo il merito ad altri).
Vi racconto però dall’inizio.
Fede, nel Medioevo, era re di Sicilia, duca di Svevia, re dei Romani, imperatore del Sacro Romano impero e poi anche re di Gerusalemme. Insomma aveva più titoli del fu principe Harry, ma senza mai farsi scrivere una bio di 500 pagine e passa (anche se ne avrebbe avuto l’occasione).
Insomma, questo splendido sovrano, nella sua corte siciliana, accoglie un sacco di letterati e intellettuali del tempo, sostentandoli e incoraggiandoli a fare la cosa migliore di cui erano capaci, ossia scrivere.
Ai quei tempi in Italia stavano migrando molti trovatori francesi.
“Trobar” significa “trovare” e i trovatori erano quelli che trovavano le parole e la melodia di un testo poetico, ossia chi componeva versi in lingua d’oc.
Questi, nel sud della Francia, avevano cominciato a fare poesia in modo rivoluzionario, perché non scrivevano più in latino, ma in provenzale, perché avevano fatto della loro arte un mestiere (cosa a cui ambiscono molti tutt’oggi, sottoscritta compresa), ma soprattutto perché riprendono quel tema, spesso rifiutato dalla letteratura, che vede la poesia come espressione dell’interiorità del poeta.
A partire dal 1209, Papa Innocenzo III scatena una crociata contro l’eresia degli Albigesi e, siccome la guerra fa schifo in tutte le epoche, molti poeti francesi scappano nel nord Italia, portando con sé il modello provenzale, importante per la costruzione di una nuova poesia italiana (che al tempo, Francesco d’Assisi a parte, non esisteva ancora).
Così Fede II, che ha occhio per la politica, ma anche per l’arte, accoglie questo modello e dà vita a quella che verrà chiamata da lì a poco la “Scuola siciliana”.
Nonostante il nome ingannevole, non si tratta di un posto dove ci sono banchi, cattedra e prof dal 2 facile, piuttosto di un circolo culturale.
Questi talenti, riuniti lì a mangiare quaglie ripiene, scrivevano principalmente d’amore, che è un tema in cui tutti possono riconoscersi perché, dal medioevo fino ad oggi, chiunque si è sentito particolarmente beffato da questo argomento.
Il loro però è un amore speciale, perché tratto da un canone convenzionale, l’amor cortese: irraggiungibile perché è quello di un amante devoto nei confronti di una “domina”, ossia una signora emancipata che necessita una certa cura. Non si può sbandierare questo amore ai quattro venti e bisogna nascondere i propri sentimenti per evitare che i “malparlieri” (tipo gli haters del tempo) trattino male questo sentimento.
I poeti siciliani a volte si sfidavano in tenzoni amorose che erano delle specie di battaglie rap per missiva, in cui i contendenti non si dicono cose tipo “Tua mamma è una zoccola”, ma discutono sulla natura del sentimento amoroso.
Tra questi rapper ante litteram c’è un notaio molto sgamato che si chiama Jacopo da Lentini che, a forza di battagliare, inventa il sonetto, una delle forme metriche di cui l’Italia si può fare vanto.
Si tratta di un testo composto da 14 endecasillabi, suddivisi in “fronte”: 8 versi (2 quartine) e “sirma”: 6 versi (due terzine). Le prime due a rima incrociata o alternata, le seconde a rima ripetuta o invertita.
Comunque, senza entrare troppo nei tecnicismi, vediamo come ha fatto Federico II a diventare uno dei padri della lingua italiana.

Fine del regno svevo. Federico muore nel 1250 e Manfredi, il figlio, viene sconfitto a Benevento circa quindici anni dopo. La produzione siciliana perde la sua casa e si diffonde verso il nord Italia. Qui viene raccolta da poeti dell’area emiliano-veneta e toscana.
Soprattutto quest’ultima direttiva è importante al fine della lingua che parliamo oggi.
NB: ricordiamo che allora la lingua era una scheggia impazzita. L’Italia era una realtà geografica, ma non politica né linguistica e allora ognuno parlava il cazzo che voleva (per essere molto rudi e chiari).
Questo materiale molto prezioso, di forte inflessione sicula, viene ripreso e ordinato da alcuni intellettuali toscani, nonché dai copisti. Ecco, questi ultimi sono fondamentali.
Allora non c’era la stampa e Gutenberg non era neanche nato, così per avere una diffusione, seppur minima, di questi testi bisognava affidarsi a chi, minuziosamente e pazientemente, ricopiava tutto a mano.
Questi copiatori però non erano macchine e, per giunta erano toscani, dunque poco affini al volgare siciliano. Quindi quando non capivano qualcosa, interpretavano sulla base del loro idioma.
È questo il modo in cui si perde traccia dei testi siciliani originali e viene posta sopra di loro una patina toscana.
Poi il toscano ha un gran successo, prima perché, sempre nel Medioevo, Dante lo sceglie per la sua “Commedia”, poi perché Manzoni usa il fiorentino vivo, parlato veramente dai fiorentini, come lingua per il suo romanzo-bomba.
Quando gli chiedono un parere su quale sia la lingua migliore per l’Italia appena unita, lui risponde ancora una volta il toscano.
Quindi il nostro italiano è a base toscana, ok.
Ok, ma sappiate che sotto a quella che tutti noi riconosciamo come la nostra lingua comune, c’è qualche espressione, una virata sintattica, chi lo sa, che proviene da un sovrano sognatore, siciliano e amico mio.
Non tutti sono d’accordo con questa interpretazione: alla frase “l’italiano deriva in sostanza dal siciliano” ci sono fior di critici pronti a prendermi a calci.
La mia proposta però è più ampia: la toscanizzazione dei testi di Fede II è un fatto indubbio, ma io sostengo semplicemente che sotto a questa scorza toscana c’è una mano di imbiancatura siciliana. Che un po’ come se sul verde dei muri di casa ci mettete il bianco. Dopo un po’ di passate, il colore precedente non si vede più. Esiste ancora, però?
Questione forse più filosofica che linguistica. Ai parlanti, in questo caso, l’ardua sentenza.
A voi le riflessioni, ma molti baci anche da parte del mio amico Fede II.

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