Di Ungaretti si sa per certo che ha partecipato alla Prima Guerra Mondiale. Ciò che di questo autore si dice all’interrogazione è che uno come lui, convinto interventista, si scomoda a partire dalla Francia per arruolarsi volontario con gli italiani, e poi si ritrova in trincea, a contatto diretto con la morte, così capisce che la guerra non è la figata celebrata dai potenti, ma fa schifo da qualsiasi parte tu la guardi.
Tutto verissimo, per carità, ma uno degli aspetti che più mi affascina di questo poeta è la sua perenne condizione di straniero. Vi spiego meglio.
C’è una poesia famosa in cui lui racconta di una sorta di “pausa” (perché i soldati in effetti non stanno tutto il tempo a combattere). Ungaretti decide di farsi un bagno. Ovviamente sul campo di battaglia non c’è la vasca, così il poeta si immerge nelle acque dell’Isonzo e lì assistiamo ad una specie di esperienza mistica, esistenziale: questa azione così quotidiana assume un significato speciale e il fiume che per lui (e per tanti altri) rappresenta la guerra diventa pretesto per ripercorrere tutti i fiumi della sua vita.
Sono proprio le tappe fondamentali che lo rendono appartenente a molti luoghi e a nessuno al tempo stesso. Altra nozione da ripetere a macchinetta davanti a un prof: la famiglia di Ungaretti è di origine toscana, ma il poeta nasce ad Alessandria d’Egitto, colpa del padre che lavorava in quegli anni alla grande opera del canale di Suez. Poi, per ragioni di studio, Ungaretti si trasferisce a Parigi e infine, come vi dicevo, viene catapultato in guerra, sul Carso.
Insomma, è il classico tipo che, a furia di avere la valigia in braccio, non sa più da dove viene e dunque si sente straniero ovunque. Certo, non esistono giustificazioni per la sua ideologia imperialistica, ma come attenuante gli concediamo il fatto che lui, nella guerra, trova finalmente un senso di appartenenza, delle radici, dunque forse non c’è da stupirsi che la sponsorizzi con tutta questa foga.
È proprio qui il nodo che lo lega a un personaggio contemporaneo, il celebre Mahmood. All’anagrafe Alessandro Mahmoud e ci basta il suo nome per capire che si tratta di un’altra persona con le radici affondate in molteplici identità: mamma sarda, papà egiziano, il cantante nasce e cresce a Milano, insomma, un casino.
Mahmood e Ungaretti condividono un talento straordinario ciascuno, quello di Ungaretti già lo conosciamo, mentre Mahmood esplode nel mondo della musica grazie alla sua voce straordinaria e alle sue abilità da cantautore. Prova a farsi notare prima con Xfactor, ma, sotto l’ala protettiva di Simona Ventura, non ci guadagna un granché. Il successo però non tarderà ad arrivare qualche anno più tardi, prima con Sanremo giovani e poi, nella versione big, con la sua iconica “Soldi”. Sbanca pure qualche edizione più tardi nel duetto “Brividi”, insieme a Blanco.
Insomma, nel giro di poco, diventa una vera e propria icona, si ispira alla musica araba, a Battisti e si definisce assolutamente pop, anche se, nel suo repertorio effettivamente convivono molti altri generi. E lui è proprio così, uno che lo guardi in faccia e sai che ha dentro diversi mondi, cosa che, tra l’altro ha scatenato pure una mezza polemica durante il suo primo Sanremo, quando un noto politico sostenitore della razza pura, ha sbuffato quando un tipo così poco etnicamente riconoscibile ha vinto il festival della canzone italiana. Così Mahmood, come Ungaretti, è portatore di una sensazione che è propria del nostro tempo, l’essere totalmente spaesati: quasi nessuno oggi si sente effettivamente cittadino del luogo che abita.

Per tornare però ai fiumi, “I fiumi” è il componimento di Ungaretti che oggi vi propongo, mentre “Il Nilo nel Naviglio” è la canzone di Mahmood che mi sembra significativa al fine di questa analisi.
“Mi tengo a quest’albero mutilato” attacca Ungaretti e già qui la personificazione (l’albero di fatto non possiede arti umani), ci catapulta in un lampo nel mondo della guerra, ordigno malefico che fa tutto a pezzi. Dopodiché si procede con il bagno di cui vi parlavo e immediatamente l’immersione assume un aspetto rituale, quasi sacro: “Stamani mi sono disteso | in un’urna d’acqua | e come una reliquia | ho riposato”.
Secondo me l’essenzialità è per assurdo la caratteristica di chi ha tanto da dire: l’aspetto sacro, appunto, è infatti messo in evidenza da due sole parole “urna” e “reliquia” che rimandano quasi distrattamente al mondo religioso: passano e noi non ce ne rendiamo conto, ma abbiamo capito.
“Questo è il Serchio | al quale hanno attinto | duemil’anni forse | di gente mia campagnola | e mio padre e mia madre.” Il Serchio è uno dei principali fiumi della Toscana, rappresenta le radici di Ungaretti, un luogo che emerge soprattutto dai racconti dei suoi genitori, la casa di una pletora di parenti con cui hai rapporti cordiali ma sempre distanti.
“Questo è il Nilo | che mi ha visto | nascere e crescere | e ardere d’inconsapevolezza”. L’Egitto è il luogo di una memoria straordinaria, la terra dell’infanzia e della prima giovinezza, quel momento della tua vita in cui sei carico di sogni e il tuo destino è ancora tutto da scrivere.
Anche Mahmood in “Gioventù bruciata” ci rende partecipi in un ricordo molto simile, sia come tema, sia come geolocalizzazione: “Mettevi in macchina le tue canzoni arabe e | stonavi e poi mi raccontavi vecchie favole e | correvi nel deserto con lo zaino Invicta ma”, una carrellata veloce di ricordi legati all’infanzia in Egitto, una ferita profonda legata a un padre mai chiamato per nome, nonché una coordinazione serrata (e… e… ma): una scelta sintattica che lega disperatamente immagini che vogliono scappare via. E poi ancora: “C’è qualcosa che non capisco | come fare un tuffo nel Mar Rosso | l’ho dimenticato troppo presto”, anche qui un bagno, un’immersione per calarsi dentro a una realtà ormai perduta.
Intanto Ungaretti continua con i fiumi suoi: “Questa è la Senna | e in quel suo torbido | mi sono rimescolato | e mi sono conosciuto”, ovvio, un chiaro riferimento a Parigi, altra tappa fondamentale della sua vita. Me lo vedo seduto in qualche circolo letterario, a parlare con gli intellettuali più fichi del tempo e a capire in quel momento che il suo destino non poteva essere altro, se non quello di poeta.
“Questi sono i miei fiumi | contati nell’Isonzo”, una frase semplice e spettacolare e che a me sembra il calco per un ritornello di Mahmood “resto qui butto un’altra notte cerco il Nilo nel Naviglio” cantato un po’ soul, un po’ pop, un po’ arabo: significante e significato corrono lungo la linea di un obiettivo comune, ossia rievocare il contesto esotico e il clima metropolitano insieme che fanno di Mahmood quel che è.
Milano, Gratosoglio, specchiandosi in quel canale, che a sua volta è un mix assurdo di fashion e immondizia, Mahmood rivede le sue due anime. Non sempre però – e questo vale anche per Ungaretti –, i ricordi fanno bene, infatti il cantante continua con: “Non chiamare, richiamare, richiamare, richiamare più | tanto non fa male, fa male, fa male, fa male più | sembra di affogare, affondare, affondare, andare giù | qui dentro al fiume non voglio nuotare, nuotare più”, la ripetizione insistita altro non è se non una richiesta disperata d’aiuto, che si conclude con un messaggio esplicito, ancora un riferimento ai suoi fiumi che però questa volta lo fanno affogare: “Dove vado se non ci sei tu più qui vicino | se non c’è più il Nilo | se non c’è più il Nilo”, i ricordi piano piano sfumano nello stesso modo in cui fa la sua voce che diventa sempre più flebile alla fine della canzone.
Così, di tutte quelle storie e di quei fiumi, a Mahmood non resta che il Naviglio, come a Ungaretti invece soltanto l’Isonzo: “Questa è la mia nostalgia | che in ognuno | mi traspare | ora ch’è notte | che la mia vita mi pare | una corolla | di tenebre”.
Il bagno è finito e ora, oltre alla nostalgia, là fuori c’è soltanto la guerra, per entrambi.

Lascia un commento