E mi fai impazzire

“In principio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco in sella al suo palafreno. Sapere chi sia importa sino a un certo punto: è la protagonista d’un poema rimasto incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena cominciato.”

Questo è Calvino ed è un’altra storia, anzi, è la fine della storia che vi sto per raccontare. Una storia pazzesca anche perché si “rifiuta di finire”.

Perché questa ragazza sta scappando? Perché alcuni di noi hanno sempre la fuga nei piedi? Quanto dobbiamo sforzarci per restare?

“Dai, non scappare da qui/ Non lasciarmi così/ Nudo con i brividi/ A volte non so esprimermi/ E ti vorrei amare, ma sbaglio sempre/ E ti vorrei rubare un cielo di perle.

Non sto parlando di Mahmood, né di Blanco e neppure di Calvino, non del tutto almeno. Ma dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.

La prima cosa che c’è da sapere è che questo poema non è tutta farina del sacco dell’Ariosto, ma ha una lunga tradizione alle spalle.

Comincia tutto con l’epica medievale, un genere che nasce nella seconda metà dell’XI secolo e piace un sacco in Francia. La cultura è quella cortese ed è un’epoca di grandi cambiamenti.

La “Canzone di gesta” è il più fulgido esempio di questo genere: gli scrittori ripensano all’epica classica e la adattano ai loro tempi. Non è più l’ora di Achille, degli dei, dell’ospitalità, delle punizioni karmiche, ma tutto gira intorno a Dio. È l’epoca delle crociate, dunque bisogna fare un po’ di pubblicità all’evento e, in un mondo senza reel su TikTok, la migliore strategia di marketing resta solo la letteratura.

Occorre una narrazione che convinca i prodi a partire per la guerra santa, una roba che prenda, che sia eroica, mitica, ideale, e allora ecco che spunta la vecchia storia di Carlo Magno, il più grande influencer in fatto di cristianità nell’Alto Medioevo.

Il lettore viene catapultato nel 778. Carlo guida una spedizione nella penisola iberica contro gli Arabi. Leggiamo di lui nella “Chanson de Roland”. L’impresa raccontata ha successo, se non fosse che, a un certo punto, l’esercito cristiano si deve ritirare. La retroguardia è comandata invece da Roland che è lui, Orlando, chiamatelo come volete, signore di Bretagna, campione di cristianità, paladino di Carlo Magno, il preferito.

Nella gola di Roncisvalle, in mezzo ai Pirenei, i nemici attaccano a sorpresa la coda dell’esercito. Orlando combatte valorosamente, esita a chiamare i rinforzi perché lui è un prode e, da prode, appunto, muore prima di fare ritorno a casa.

“In Francia scoppia una gran tempesta:/ un uragano c’è di tuono e di vento, /di pioggia e grandine che senza fine scende:/ […] A mezzogiorno vi son grandi tenebre:/ […] /Dicono i più: «Certo la fine è questa:/ certo del mondo venuto è ora il termine!»/ Essi non sanno, né dicon proprio il vero,/ ché questo è il lutto perché Orlando si spegne.”

La morte di Orlando sui Pirenei provoca una catastrofe pure in Francia, martirio, evocazione divina, fine del mondo, una morte paragonabile solo a quella di Gesù. E, fidatevi, Gesù andava un sacco a quei tempi.

Ecco la perfetta descrizione di un campione di coraggio e cristianità. Il testimonial perfetto delle crociate.

Più avanti però, un signore di nome Matteo Maria Boiardo, riprende questo materiale e lo rimaneggia a modo suo.

I tempi sono nuovamente cambiati, XV secolo, l’Umanesimo, l’uomo e le sue grane diventano il centro del mondo e Boiardo partorisce un’idea che è espressione della sua epoca: l’Orlando Innamorato.

Di nuovo quell’Orlando là, tutto casa, chiesa e guerre sante, ora ha anche una donna di cui preoccuparsi, la bella e cazzuta Angelica, principessa del Catai che non ha paura di sfidare a duello i cavalieri di Carlo Magno.

Boiardo non conclude il suo libro, perché muore prima, questa storia non vuole finire. Così interviene il celebre Ariosto.

La sua idea è scrivere una specie di seguito del libro di Boiardo, però con più brio.

Ariosto vive a Ferrara e lavora per gli Estensi che era la famiglia più in vista, tipo i Ferragnez. E gli Estensi lo tenevano con loro, lo coccolavano, gli davano vitto e alloggio e il compito di Ariosto era fondamentalmente quello di scrivere: poteva scrivere quel che gli pareva, bastava solo rendere sempre omaggio alla famiglia che lo manteneva. Una marchetta socialmente accettata, insomma.  

Così Ariosto riprende il personaggio di Orlando perché lui si presta molto bene a raccontare i valori ancora in voga nel ducato di Ferrara: virtù militare, cavalleria, coraggio, lealtà, eccetera. Il tutto però dalla giusta distanza che è possibile solo grazie all’ironia.

“Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,/ le cortesie, l’audaci imprese io canto,/ che furo al tempo che passaro i Mori/ d’Africa il mare”

Cosa accadrebbe se Orlando non fosse solo innamorato della bella Angelica, ma, non ricambiato, diventasse proprio pazzo d’amore?

Così nasce l’Orlando furioso.

“Come si fa? Come si fa?/ Senza un rumore, eh, giri la stanza/ Come si fa? Come si fa?/ Sola col tanga te lo strapperei via/ E mi fai impazzire, mi fai impazzireeeeee.”

Stiamo parlando di quell’amore che non ci fa dormire la notte, che ci rende pessimi studenti, lavoratori mediocri, genitori o figli distratti: un amore così totalizzante non lascia spazio per niente più.

Così accade a Orlando che dimentica Dio e gli ideali, pazzo per lei che non lo vuole, si strappa l’armatura e smette di combattere. E non c’è verso di farlo ragionare, tanto lui non ci sente.

Una fuga, quella di Angelica, che corre per tutte le pagine del poema, e un inseguimento: Orlando come tanti noi disgraziati alla ricerca incessante di ciò che non c’è e forse non si potrà mai afferrare. Il meraviglioso, l’illusione.  

Angelica che è bella, nobile e indipendente, non si fa abbagliare dallo splendore di tutti questi paladini, ma si innamora di Medoro, un umile fante, per giunta musulmano.

Dunque la vicenda, da eroica, diventa assolutamente umana e Orlando attraversa tutte le fasi da manuale dell’innamorato respinto: dalla non accettazione alla follia pura.

“Dirò d’Orlando in un medesmo tratto/ cosa non detta in prosa mai, né in rima:/ che per amor venne in furore e matto,/ d’uom che sì saggio era stimato prima;/ se da colei che tal quasi m’ha fatto,/ che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,/ me ne sarà però tanto concesso,/ che mi basti a finir quanto ho promesso.”

Sì, avete capito bene. Uno dei motivi di tutto questo casino è che Ariosto era a sua volta innamorato di una tizia che lo faceva impazzire. Si chiamava Alessandra Benucci, anche se lui non la nomina mai, e la invoca qui nel suo proemio come antimusa, quella che per poco non gli faceva saltare tutta l’opera.

È difficile scrivere quando stai male, veramente male intendo. Perché nella scrittura sei costretto a dire la verità e ad esplorare quei pensieri profondi e tremendi che altrimenti eviteresti.

E, fidatevi, perfino Ariosto fa una fatica pazzesca. Ci sono gli Estensi che gli rompono le palle, la Benucci che fa il bello e il cattivo tempo e lui non è mai soddisfatto, scrive e riscrive diverse versioni del suo Orlando. Ancora una volta sembra che questa storia non voglia finire, ma poi Ariosto ce la fa e cura tutte le sue ferite.

E non c’è miglior modo di curarsi se non trasformare il proprio dolore in letteratura e farlo con ironia, l’ironia dà una gran mano. C’è tutto nel suo poema: la guerra, l’amore, la magia, l’essere così maledettamente umani e sofferenti, temi orchestrati con segreto invidiabile, il ritmo. Il metro infatti è un’ottava che ti dà l’impressione di percorrere il poema “a cavallo”, proprio accanto ai cavalieri. Al trotto, al galoppo.

Non è finita qua, però.

Molto dopo arriva Calvino, che non c’entra con questa storia e il ‘900 sembra un secolo che non ha nulla a che vedere con quanto vi ho appena raccontato.

Calvino condivide con Ariosto lo stesso senso dell’umorismo, che è una cosa importante. Quei due, se solo si fossero incontrati, avrebbero potuto essere amici per la pelle o magari anche fidanzati.

Io stessa di solito scelgo le persone che voglio accanto sulla base delle risate che mi faccio con loro. Ridere insieme crea un accordo meraviglioso, un patto narrativo: se ridiamo delle stesse cose vuol dire che siamo fatti della stessa pasta.

Così Calvino, che non può fidanzarsi con Ariosto, riprende ancora una volta il personaggio di Orlando e riscrive il poema, a modo suo, per lo più in prosa e mettendoci il suo tocco.

“In principio c’è solo una fanciulla che fugge per un bosco”

Così, grazie a questi scrittori, quelli anonimi del medioevo e poi Boairdo, Ariosto e Calvino, questo personaggio attraversa i secoli e si ripresenta in ogni epoca sempre attuale, eroico e sgangherato insieme, a raccontarci che gli esseri umani sono così, cavalieri erranti, non solo nel senso comune del viaggio e dello smarrimento, ma sono cavalieri che, a dispetto delle favole, a volte sbagliano e sbagliano forte.

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