Stelle per Pascoli

Ogni dieci agosto alzo gli occhi al cielo, non per esprimere un desiderio, ma perché penso a Pascoli.

“San Lorenzo, io lo so perché tanto/ di stelle per l’aria tranquilla/ arde e cade, perché sì gran pianto/ nel concavo cielo sfavilla.”

Okay, lo so che non sembro a posto, ma Pascoli è uno dei miei poeti preferiti, così tanto che non basterà un solo pezzo per esaurire ciò che ho da dire di lui.

Basta solo leggere come inizia questa poesia per capirlo. È una delle più famose. “X agosto”, che non è “Ics agosto” e neanche “Per agosto”, ma è il 10 agosto del 1867 e anche i sassi sanno cosa è successo a Pascoli quel giorno. È lo stesso motivo che spiega la metafora del quarto verso, la pioggia di stelle diventa un pianto, un dolore privato si trasforma in quello dell’universo intero, in sole cinque o sei parole: quello è il giorno in cui il padre di Pascoli muore.

È uno di quegli eventi che ti taglia in due la vita, che crea un prima e un dopo dolorosissimo.

Ma la cosa che mi colpisce di più è “io lo so perché”. È una frase banalissima, sarà la posizione nel verso, il suono, ma lì dentro sento tutto l’orrore di avere undici anni e rendersi conto che uno dei tuoi genitori non c’è più.

“io lo so perché”

E Pascoli si ferma a quegli undici anni, ne avrebbe compiuti dodici a dicembre, e poi tredici, venti, cinquanta, eccetera, ma da quel momento lui non cresce più, cercando disperatamente di fermare il tempo, un giro all’indietro delle lancette, quell’ora prima che suo padre morisse, quando lui, i genitori e i suoi nove fratelli, erano ancora una famiglia.

Nella poetica di Pascoli sentiamo spesso la parola “nido” e non solo perché lui era appassionato di natura e di uccelli, ma perché il nido rappresenta la casa, l’affetto della famiglia, la sicurezza che troppo presto gli è venuta a mancare.

Pascoli cresce e diventa quello che oggi chiameremmo un adulto problematico. Non si sposa mai, sopporta a stento morti, separazioni, trasferimenti, vive a lungo con le sorelle Ida e Mariù, ultimo pezzo che gli rimane della sua famiglia.

Quando Ida si sposa, lui ci rimane di merda, dicono che non sia andato neanche al matrimonio tanto era incazzato con lei. Pascoli non sa gestire le emozioni.

Resta dunque con Mariù, “Angiolina mia bella”, come diceva lui, al suo fianco fino alla fine, quella che curerà i suoi scritti dopo la morte.

C’è chi dice che se le facesse pure le sorelle, ma non entrerò nel merito. Fatto sta che certamente Pascoli era un poeta geniale, ma che oggi sarebbe una di quelle persone che non è in grado di pagare una bolletta o che non sa cucinarsi un uovo.

Colpa della morte che è entrata a gamba tesa nella sua vita e che dunque ricorre in un tutte le sue poesie come una litania.

“(tintinni a invisibili porte/ che forse non s’aprono più?… );/ e c’era quel pianto di morte/ chiù.”

Pascoli, tra le altre cose, è anche un fonosimbolista che significa che i suoni nelle sue poesie evocano concetti veri e propri, sono onomatopee, allitterazioni, ma insieme anche metafore, figure di significato. E quel “chiù”, a chiusura del testo, non è solo lo strano verso di un uccello notturno e portasfiga, ma è un urlo che viene da lontano e si fa via via più vicino, come le voci di chi non c’è più che, come in un romanzo di Dickens, tormentano ancora chi resta.

Comunque dicevo che alla fine Pascoli non vive mai, ma si lascia vivere:

“Un’ape tardiva sussurra/ trovando già prese le celle.”

L’ape tardiva è lui che a un certo punto sente che i giochi sono ormai fatti, che tutti i suoi coetanei hanno scelto, mentre l’unico a non scegliere resta lui, le celle nell’alveare sono tutte già prese e a lui non rimane che la sua vita schifa, del resto al tempo non esisteva ancora il gintonic come consolazione. Non a caso questa poesia è “Il gelsomino notturno” ed è stata scritta per il matrimonio di un suo amico.

Ho giocato un po’ troppo, ora sono in ritardo per tutto.

Lui non ce la fa, non ce la fa proprio e in qualche modo “Il fanciullino” è anche l’esito di questa condizione.

“Il fanciullino” è un saggio, nonché il suo modo di intendere la poesia. Sostanzialmente si tratta di dire che dentro di noi c’è sempre un bambino, che noi consideriamo o meno. Si tratta di un’entità che vede le cose in modo autentico, speciale, creativo, libero, come fanno solo i piccoli.

“Egli è quello, dunque, che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei.”

Pascoli dice che di solito gli adulti non ascoltano questo fanciullo interiore perché il lavoro, le bollette da pagare, le uova da bollire, non ci lasciano tempo e immaginazione per lui. Solo gli artisti, tipo gli scrittori o i poeti geniali, riescono a dargli voce. Che poi è un modo come un altro per tirarsela, ma va bene comunque: è il Decadentismo e funziona così.

Non gliene si può fare una colpa, lui è solo un bambino troppo cresciuto, un fanciullino con i baffi che cerca, attraverso la poesia, di darsi un senso.

Non sempre ci riesce, a volte, purtroppo, nella poesia incontriamo lo stesso dolore di tutti i giorni, solo in un’altra forma, più alta magari e ricca di quelle figure retoriche con cui crediamo di nasconderci, ma con cui invece ci riveliamo ancora di più.

“là, voci di tenebra azzurra/ mi sembrano canti di culla,/ che fanno ch’io torni com’era/ sentivo mia madre poi nulla/ sul far della sera.”

Non so neanche da dove cominciare per analizzare il finale de “La mia sera”, tanto sono pietrificata di fronte a queste parole.

“Che fan ch’io ritorni com’era”: il desiderio di tornare bambini, tornare ad essere amati, protetti è, sì, irresistibile, ma è anche un desiderio di morte. Tornare nell’utero, tornare a non essere più.

Il tutto confermato da quello che segue “sentivo mia madre poi nulla” e in quel “nulla” c’è tutto, c’è la fine del tuo mondo che è la fine del mondo intero, c’è che da certi dolori non ci si riprende più. E la psicoterapia non era stata ancora inventata, ma se Pascoli si fosse fatto vedere da uno bravo, probabilmente gli avrebbe detto questo.

Poi probabilmente Pascoli l’avrebbe mandato affanculo, perché era un testone, ma io non gliene faccio una colpa.

Dobbiamo avere sempre cura del dolore dell’altro, anche se per noi è trascurabile o se per primi, quello stesso dolore, siamo stati in grado di superarlo.

Ed io non sono né una terapeuta, né una psichiatra, ma so solo che se oggi incontrassi Pascoli, lo abbraccerei e basta.

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