La svolta tragica di Seneca

Seneca è quell’autore che, se ti capita alla versione della Maturità, ti viene voglia di lanciare una sedia alla commissione.

Lo ricordiamo come filosofo, stoico, vecchio, saggio, eccetera. Parole in libertà che ci tornano alla mente direttamente dal liceo e perse in qualche antro, insieme al bacio alla tizia del banco in fondo, o a una sbronza la sera prima del compito di latino.

Non tutti però sanno che lui è stato anche drammaturgo e politico, due ruoli che hanno una certa connessione e, in questo caso, anche una svolta tragica.

Cominciamo con la prima delle sue attività.

Seneca è autore di una decina di tragedie. Di queste ultime però non si sa molto, né quando sono state composte, né il preciso intento.

Insomma, cosa ha spinto un filosofo, a cui sono più consoni generi come il trattato o l’epistola morale, a dedicarsi al teatro?

È probabile che il suo lavoro da drammaturgo fosse una forma di silenziosa lotta al potere. Del resto siamo nell’epoca di Nerone e quello certo non era un imperatore aperto al dialogo con l’opposizione. Anche se, quando è salito al soglio imperiale, non era ancora quel bugiardo incendiario che tutti conosciamo. Allora era solo un Nerino, diciamo, un pischello acerbo di appena diciassette anni.

Ovviamente uno così giovane non può ancora regnare, così ci pensa mamma Agrippina che assume come precettore proprio Seneca. Cuore di madre, lei pensa forse che così quel cretino di suo figlio imparerà qualcosa sul potere.

Non a caso, infatti, i primi cinque anni di governo di Nerone sono segnati dalla moderazione e dal rispetto per il senato. Per forza, non era lui che regnava, di fatto detenevano il potere Seneca e il prefetto Afranio Burro.

Dopo, però, Nerone si affranca da balie, parenti e prefetti e assume il comando. La sua prima azione da leader è proprio quella di ammazzare prima il fratello e poi la madre, per evitare grane con la successione. La sua vera natura.

Come se non bastasse, la sua condotta diventa via via più dispotica con il passare del tempo.

Seneca, da bravo saggio, capisce che è il momento di levare le tende. Così abbandona la politica e si ritira a vita privata.

Nerone nel frattempo fa le peggio cose, tra cui far sparire tutti i suoi oppositori o i presunti tali. Che poi è un attimo finire sulla lista nera, anche se sei filoneroniano, infatti, potresti sempre pestare i piedi a qualcuno di importante: la mafia uccide solo d’estate, ma evidentemente a Nerone vanno bene tutte le stagioni.

Il dramma, per Seneca, è il luogo giusto per parlare di questo mondo di violenza e ingiustizia.

Innanzitutto il teatro gli offre un pubblico più ampio, anche se le sue opere non erano vere e proprie messe in scena, ma recitationes, ossia letture ad alta voce. Inoltre narrare una storia per spiegare un concetto è un metodo che storicamente attira l’attenzione. E lui aveva delle cose urgenti da dire.

La sorte ballerina e pericolosa, il conflitto tra vizio e virtù, l’eterna lotta tra ordine e presenza del male nel mondo, tutto condito con il velo del mito greco, che male non fa e serve sempre a un bravo scrittore latino per legittimarsi: questo troviamo nella tragedia di Seneca.

Non è tutto qui. In profondità, sotto a questa patina, c’è una forte denuncia alla politica neroniana.

Ma come fa Seneca ad assicurarsi di essere sufficientemente incisivo? Come mandare un messaggio chiaro ai suoi destinatari e al tempo stesso velato agli occhi dell’imperatore?

Seneca doveva dirlo a tutti che quel Nerone lì era un tiranno, ma doveva fare attenzione e allora la retorica diventa il suo codice segreto, a prova perfino di Alan Turing, forse.

Frasi secche, enfasi sulle declamazioni, descrizioni fatte per accumulazione e, ovviamente, un sacco di pathos: la formula perfetta per farci sentire le cose, senza per forza dirle.

Per rendere meglio l’idea, spesso le scene sono molto violente, sangue da tutte le parti, schizzi che neanche nei film di Tarantino e poi fantasmi, sogni premonitori: queste sono le parti che piacciono al pubblico e, al tempo stesso, restano ben impresse nella mente. Sono il veicolo del messaggio.

Seneca sceglie eroi del mito, già caratterizzati dalla loro rabbia, ma che ora, più che incazzati, sono proprio invasi dal “furor”. Il “furor” è la degenerazione estrema dell’ira, una forza che ti sconvolge la mente e ti rende un matto, un killer seriale di consanguinei, che ti istiga all’omicidio e che non è soddisfatto fino alla disintegrazione finale, quella di se stessi.

I guai e gli spargimenti di sangue iniziano sempre dalla famiglia. Eteocle e Polinice, i due fratelli che si ammazzano l’un l’altro per una stupida corona, Medea che fa fuori i propri figli pur di punire il marito fedifrago, l’odio tremendo di altri due fratelli, Atreo e Tieste, nonché Edipo, di cui già conosciamo i problemi con i genitori, che infierisce su se stesso con una violenza inaudita.

“Affonda avidamente le mani nella cavità degli occhi, strappati fuori fin dalla radice li sradica del tutto: resta attaccata al vuoto la sua mano e, andando in profondità, lacera con le unghie la cavità fonda degli occhi ormai vuota, e incrudelisce vanamente e infuria più del dovuto, tanto grande è per lui il pericolo della luce.”

Sofocle, quando racconta questo mito, non è certo così violento e truce. Ma qui, l’interesse quasi morboso per i dettagli truculenti serve da metafora per raccontare di tutte le porcate di Nerone: gli omicidi dei parenti, la repressione, il terrore… ma che razza di dittatore ci sta governando?

Non c’è speranza per gli eroi tragici di Seneca, la parabola drammatica si compie con la catastrofe degli ultimi versi, già preannunciata nei primi. Così come non c’è speranza neanche per Seneca stesso.

Non conta supplicare le forze della natura o le divinità, non c’è scampo per nessuno. Come dice Giasone mentre Medea prende il volo sul suo carro: “Non possono esserci dei dove è concessa salvezza a una madre assassina.”

A palazzo intanto, l’ennesima congiura costringe Nerone a far fuori tutti coloro che ne hanno preso parte. Anche se estraneo ai fatti, Seneca viene coinvolto lo stesso e il suo ex allievo gli manda l’ordine di suicidarsi. Ucciditi tu, prima che arrivino i miei sicari.

Di questo suicidio ci racconta Tacito negli “Annales” e lo storico descrive appunto una specie di splatter, molto simile alle scene che scriveva il nostro filosofo.

Prima si taglia le vene dei polsi, ma il sangue non scorre abbastanza velocemente, così recide anche quelle delle gambe e delle ginocchia. Poi, come Socrate, beve la cicuta, ma neanche quella funziona, si ficca allora in una vasca di acqua calda per far scorrere più velocemente il sangue e alla fine muore soffocato, forse dai vapori, forse dal veleno, ma di sicuro lentamente e in maniera straziante.

È come se Seneca avesse messo in scena anche la propria morte, come ultimo, disperato tentativo di opporsi a Nerone.

Un messaggio ai contemporanei e ai posteri. Il suicidio, del resto, ha sempre dei destinatari, anche se, come in questo caso, si tratta di un ordine, di un ultimatum.

Seneca, anche nel togliersi la vita, continua la sua battaglia alla tirannide.

Forse strappare dalla vita uno come lui, un filosofo, un combattente, un oppositore, non poteva essere così facile.

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