Portami tante tamerici

È molto facile parlare di rose, le rose sono facili da amare.

Ora non vi sto invitando, come altri prima di me, a preferire le spine. Piuttosto il mio consiglio è di considerare anche altre piante.

A me, più delle rose, hanno sempre affascinato le tamerici, sarà forse perché tanti grandi della letteratura le hanno tirate in causa.

Prima di tutto fughiamo ogni dubbio.

Sì, abbiamo letto spesso delle tamerici e chiunque, la prima volta, le ha sempre accolte come quelle cose in parte misteriose e un po’ elevate di cui non si osa chiedere, quasi come Dio.

In sintesi quindi cosa sono?

Le tamerici sono degli arbusti tipici della macchia mediterranea perché crescono volentieri nei terreni aridi, quindi anche in quelli spaccati dal sole delle nostre coste.

Hanno dei rami eleganti e delicati e in primavera fioriscono in cespugli tutti bianchi o rosati.

Visto? Sono decisamente più complicate delle rose e anche più poverine, a dirla tutta.

Sono piaciute così tanto a Virgilio, per esempio, che le ha citate in un famoso passo delle “Bucoliche”: “Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae” che significa “Non tutti amano gli arbusti e le umili tamerici”.

Virgilio scrive queste parole nell’ultimo disgraziato periodo della Repubblica.

A Roma è il caos. Poco tempo prima hanno ammazzato male Cesare e pure in senato. La situazione è fuori controllo, le guerre per la successione e al contempo la caccia ai cesaricidi stanno distruggendo lo stato.

Così Virgilio, scrivendo dei canti pastorali, ci trasporta in un mondo ideale, dove non mancano però tutte le tensioni e le grane presenti in quello reale.

E allora l’espressione qui usata, in riferimento alle tamerici, diventa una dichiarazione disperata, una necessità: non siamo qui ad asciugare gli scogli, a parlare di cazzate, a pettinare le tamerici, ora occorrono argomenti più seri.

I nostri meravigliosi arbusti dunque non ci fanno una gran figura con Virgilio, anche se, come si dice spesso oggi: “bene o male, basta che se ne parli”.

E infatti è sufficiente che le abbia nominate uno come lui perché altri poeti si accorgano della loro unicità.

Scorriamo fino al Novecento, arriviamo a Pascoli che chiama “Myricae”, ossia “Tamerici”, appunto, una delle sue raccolte più importanti.

Le sue intenzioni sono diverse: Pascoli si dichiara ufficialmente come poeta della tamerici, ossia delle piccole cose, dei cespuglietti, mica dei grandi alberi. E, fidatevi, lui ne sapeva un sacco di botanica.

Alcuni critici dibattono su questa posizione, perché Pascoli aveva tanti pregi (almeno nella scrittura), ma non era poi così umile come si dice in giro.

Del resto la citazione resta pur sempre di Virgilio e Virgilio è uno dei big dei poeti classici, mica il primo che passava.

E poi ci si mette pure D’Annunzio che, notoriamente, è uno che se la tira parecchio.

Che fine faranno le ex modeste tamerici con lui?

“Ascolta. Piove/ dalle nuvole sparse./ Piove su le tamerici/ salmastre ed arse,/ piove su i pini/ scagliosi ed irti,/ piove su i mirti/ divini,/ su le ginestre fulgenti/ di fiori accolti,/ su i ginepri folti.”

D’Annunzio si autodefinisce un poeta-vate, uno che non si limita a scrivere, ma che trattiene tra le sue righe una verità importante, sacra quasi. Per questo, nei sui testi, tutto, dal lessico alla forma, deve mantenere un certo tenore.

Dunque vediamo: passi per i pini che sono piante comuni, ma poi arrivano mirti, ginestre, ginepri e ovviamente le tamerici.

Non c’è dubbio, questo è un elenco botanico che vuole fare colpo, del resto mica sta piovendo sulle margheritine di parco Sempione. La maggior parte di queste piante neanche le conosceremmo se con il mirto e il ginepro non ci facessero dei superalcolici.

Certo, la spocchia di D’Annunzio non è un segreto e, se lui fosse qui, di sicuro non lo negherebbe.

Sì, pure le sfigate tamerici ora diventano ufficialmente preziose, perché sono misteriose e sono le piante di Virgilio.

Dalle stalle alle stelle.

Ce ne dà conferma, più tardi, un altro grande poeta, ossia Montale.

Montale è uno che si è letto un sacco di D’Annunzio con lo stesso spirito di chi decide di tenere d’occhio i propri nemici.

Mi piace pensare che Montale un po’ ce l’avesse con D’Annunzio e che avesse in casa un bersaglio con la foto del vate per lanciargli le freccette. La verità probabilmente è che lo rispettava molto, ma i due erano parecchio diversi. Avevano idee opposte a proposito di poesia perché, per gran parte della sua vita, Montale cerca di trovare un senso per questo genere nel suo tempo: il Novecento dei dopoguerra è un periodo di rottura, di crisi nera, e allora che posto può avere un poeta in un’epoca del genere?

La poesia di Montale è quella della pattumiera, dei detriti, del male di vivere. C’è spazio per le parole elevate, ma da usare sempre con le dovute precauzioni perché lui resta, e resterà sempre, un tipo modesto sul serio.

“lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi/ fossi dove in pozzanghere/ mezzo seccate agguantano i ragazzi/ qualche sparuta anguilla:/ le viuzze che seguono i ciglioni,/ discendono tra i ciuffi delle canne/ e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.”

Qui Montale ce l’ha con i cosiddetti “poeti laureati”, quelli che fanno i fighi con la poesia, tipo D’Annunzio, incoronati d’alloro (pianta sacra ad Apollo, dio della poesia in persona) e scrivono di piante mai sentite perché, oggi diremmo, fa molto radical chic.

Montale invece preferisce i limoni. Belli, gialli, modesti, segno di una poesia che fa quel che può.

Non è un segreto che Montale ami la Liguria e quei paesaggi aridi, assolati e immobili delle due del pomeriggio a Monterosso. Quello sarebbe proprio l’ambiente perfetto per le tamerici, eppure lui non le nomina nemmeno, per ripicca, sembra, perché ora sono diventate delle piante da fighetti.

E quindi mo dove le collochiamo ste cavolo di tamerici? Approvate o respinte nel linguaggio e nella poesia?

Arriviamo così a tempi decisamente più recenti e non a un poeta, ma a un gruppo musicale, i Baustelle.

E sì, i loro testi di tanto in tanto sono un po’ spocchiosi, ma sempre ben scritti e non privi di quel sarcasmo pungente che può appartenere anche all’Indi rock pettinato.

Ed ecco, in una delle loro canzoni, spuntano di nuovo le nostre care tamerici.

“Piove su immondizia e tamerici/ Sui suoi cinquemila amici/ Sui ragazzi e le città/ Tanto poi ritorna il sole”.

Il riferimento è sicuramente dannunziano, con quel “piove” iniziale, e il gioco è quello dei contrasti, tant’è vero che poi la strofa si chiude con la parola “sole”.

Così il gruppo, nella contraddizione, fotografa il senso di questo vocabolo oggi.

Ce l’hanno fatta i nostri teneri arbusti a diventare la parola preziosa, precisa e impegnativa che Virgilio non si era manco sognato.

A me piacciono le tamerici perché, anche se hai la stazza e l’indole da piccolo, non c’è nulla di male a tirarsela come i grandi, di tanto in tanto.

E allora, visto che oggi è pure il mio compleanno, se volete farmi un regalo, non portatemi tante rose, ma un bel mazzo di tamerici.

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