Foscolo è quell’autore incastrato malamente tra la fine della quarta superiore e l’inizio della quinta.
Arriva dopo la grande mazzata del Settecento, Alfieri, Parini, Illuminismo e prima della grande indigestione dell’Ottocento: “Ragazzi, sbrighiamoci con ‘sto Foscolo perché dobbiamo ancora fare Manzoni e Leopardi”.
Mi è capitato di affrontarlo in quarta, senza interrogazione però, perché gli studenti avevano già la testa in piscina. Sono stata a volte costretta a spiegarlo in quinta, ma non ho mai verificato le conoscenze perché tanto non è argomento di Maturità e in quinta, si sa, c’è pressa. Sì, io sono una di quelle prof sempre in ritardo sul programma, ma non ditelo a nessuno.
Insomma Foscolo non lo vuole il Settecento, non lo vuole l’Ottocento, agli alunni fa schifo e i professori lo saltano. Ma forse perché nessuno si preoccupa di capire chi fosse veramente.
Innanzitutto all’anagrafe non si chiamava Ugo, ma Niccolò. Non è chiaro il motivo di questo cambio, ma oggi il suo pseudonimo suona abbastanza respingente, in effetti. Mi dispiace per gli Ugo che stanno leggendo, ma se io mi chiamassi così forse preferirei Niccolò.
Altro fatto, che spesso dei poeti si tende a ignorare, è che lui piaceva un sacco alle donne. Le ha conquistate tutte, sane e cadute da cavallo, anche quelle sposate, pure dopo il trapasso, a quanto pare. Qualche mia alunna (del serale e dunque maggiorenne), dopo la spiegazione, mi ha confessato, testuali parole, che “un giro con Foscolo” se lo sarebbe fatto volentieri.
Un’altra cosa che lo renderebbe più interessante agli occhi degli adolescenti è che lui è stato il primo TikToker ante litteram.
Sì, avete capito bene. Certo, lui cambia idea diverse volte durante la sua carriera, ma poi approda a un concetto condivisibile anche dai nostri attuali divi dei social: lui vuole solo essere ricordato, come tutti del resto, fare qualcosa che lo renderà eterno, che vada oltre alla tanto spaventosa morte che domina sui suoi testi.
Ma partiamo dal principio.
Foscolo riceve una bella delusione da giovane.
Allora parte dell’Italia era nelle mani degli Austriaci e molti come lui vedevano in Napoleone l’unica speranza di liberare il Paese dal dominio straniero. In effetti Napoleone sembra lavorare bene, fino al Trattato di Campoformio. È lì che il corso imperialista frega tutti e cede la Repubblica di Venezia all’Austria, con sgomento dei più, soprattutto di Foscolo che a Venezia allora era residente.
Così la mania dell’esilio diventa tema ricorrente nella vita e nell’opera del nostro poeta che improvvisamente non si sente più casa da nessuna parte e teme, per questo motivo, di morire solo e ignorato. Una vita sprecata.
Foscolo non ha paura della morte in sé. Come si diceva spesso nel pieno Settecento, infatti, la morte è solo uno dei processi meccanici della natura, come la trasformazione di un baco in farfalla, anche se probabilmente lui, come me, era il tipo che preferiva i bruchi.
La sua vera paura era altro.
Per questo scrive “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” che è la sua prima azione da TikToker.
In un’Italia in cui esistono solo poesie e teatro, lui compone un romanzo epistolare, che qualcuno considera forse il primo romanzo della nostra storia, se non fosse che è fatto solo di lettere che appunto Jacopo, il protagonista, scrive da un esilio molto simile a quello del suo inventore.
Il primo romanzo italiano è “I Promessi Sposi”, non c’è storia, ma lui in qualche modo è il primo che ha provato a cambiare le cose. Un quasi innovatore, forse la spinta che serviva a Manzoni per decidersi, chi può dirlo.
Anche se forse è un po’ presto per il Romanticismo, Jacopo è un eroe romantico. È uno di quelli che combatte con tutte le sue forze contro un nemico spesso invisibile, sicuramente potentissimo. E già quando parte per la sua battaglia sa che avrà la peggio, eppure parte lo stesso.
E Foscolo è un po’ come il suo protagonista, uno sfigato coraggiosissimo, senza cognizione, ma proprio per questa ragione molto eroico.
Un’unica differenza intercorre tra i due: Jacopo sceglie il suicidio come via d’uscita ai suoi tormenti. E forse anche Foscolo qualche volta ci pensa su: “E prego anch’io nel tuo porto quiete” scrive al celeberrimo fratello Giovanni e il porto sicuro, quieto, di cui parla è appunto la morte. La fine di ogni sofferenza.

Morire però non è così facile, nemmeno per uno come lui che di morte si intende perché, un suo eventuale decesso, lo metterebbe di fronte a un ulteriore problema: “Tu non altro che il canto avrai del figlio,/ O materna mia terra; a noi prescrisse / Il fato illacrimata sepoltura.”, la morte lontana da casa, la morte in esilio, prevede un ricordo senza lacrime, senza dolore, senza ricordo vero.
Per Foscolo la tomba è una specie di interfono con l’aldilà, è il luogo in cui i vivi e i morti possono ancora stare insieme, scambiare opinioni. Diventerà in seguito, luogo di ispirazione per grandi imprese.
Qualcuno che venga a piangere sulla tua tomba, una bella lastra di marmo con sopra inciso il tuo nome, cazzo, Foscolo non vuole essere dimenticato.
Lui, lontano, esiliato, tradito, brama solo che questo grande dolore non vada tutto sprecato.
E alla fine è proprio nella poesia che trova il modo di diventare eterno. La poesia costituisce il filo conduttore che lega vivi, morti, insegnanti, studenti scazzati, autori esordienti, gente disperata.
È sempre più difficile parlare di poesia, perché chi hai di fronte, di solito, cataloga l’argomento in automatico come vecchio e un po’ trombone. Ma se ci pensiamo la poesia nell’antichità, come nel Romanticismo e in altre ere, ha lo stesso scopo dei TikTok e dei reel di Instagram.
Quando salgono le visualizzazioni noi, per un istante, saliamo al cielo, diventiamo dei. E, anche se solo nell’effimero dell’attimo in cui otteniamo milioni di interazioni, abbiamo l’impressione che non è tutto qui, che la nostra vita ha un senso, che siamo molto amati, che saremo ricordati in eterno.
E poco importa che ci cimentiamo in una conversazione in corsivo o scriviamo qualcosa del tipo: “All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne/ Confortate di pianto è forse il sonno / Della morte men duro?”, il punto è sempre lo stesso: essere rilevanti, almeno per un instante. Avere la sensazione che qualcuno, anche in futuro, saprà che ci siamo stati e che, come eroi romantici, abbiamo combattuto contro ai nostri guai.
Io voglio bene a Foscolo e mi dispiace, da prof, relegarlo così tanto negli spazi minuscoli tra un consiglio di classe e una prova invalsi. E prometto che, se quest’anno avrò una quarta, il mio primo pensiero sarà quello di dare a questo poeta una degna memoria, come lui avrebbe voluto, anche se solo a una manciata di adolescenti che sembrano annoiati.
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