Leopardi era un uomo di merda.
Tipo un misto tra Ebenezer Scrooge e Er Monnezza del suo tempo.
Non c’è storia: stava male e per questo trattava tutti male, ecco qui.
Per questa ragione nessuno lo sopportava, nemmeno i suoi genitori. Il signor Conte Monaldo deve aver benedetto con tutto il cuore la sua famigerata biblioteca, dato che quel figlio rompicoglioni per lo meno aveva il buon gusto di chiudersi sovente lì dentro.
Leopardi era malato, certo, ma non per questo giustificabile a prescindere, tanto più perché non si prendeva neanche cura di se stesso e così stava solo peggio.
E poi faceva schifo, non si lavava… e ok, era l’Ottocento, ma una vita vita lontana dalla doccia farebbe salire pessimismo storico e cosmico a chiunque.
Nonostante tutto questo però resta un grande poeta e un grande uomo. E non per il solito motivo stucchevole: “poverino, soffriva tanto, bisogna compatirlo”, nemmeno lui, se ci potesse sentire, vorrebbe questo pietismo. Lui è un grande perché, a un certo punto, seppur alla fine della sua vita, riesce finalmente a cambiare prospettiva e in questo modo si cura anche un pochetto.
Bisogna sempre apprezzare chi ammette che, in effetti, no, le cose non vanno così bene e ha la forza di reinventarsi.
Leopardi si trova a Napoli, dove coltiva prevalentemente la sofferenza, come sempre, e si fa grandi scorpacciate di gelati: le sue due passioni.
Qui, probabilmente proprio alle pendici di O Vesuvio, ha la sua grande rivelazione, che si concentra tutta in un unico grande simbolo, un fiore: la ginestra.
“Qui su l’arida schiena/ del formidabil monte”

La ginestra è un fiore giallo, stupendo, che ha il vizio di crescere lungo le pendici dei vulcani. Sa benissimo qual è il suo destino, perché un vulcano per natura ha la tendenza ad eruttare e a distruggere tutto, ma la ginestra se ne fotte e cresce lo stesso.
“La ginestra” è un componimento di una lunghezza anomala per il nostro poeta e costituisce un po’ il suo testamento spirituale.
“tuoi cespi solitari intorno spargi,/ odorata ginestra,/ contenta dei deserti”
Ma come si fa ad essere contenti dei deserti? Oggi poi che il processo di progressiva desertificazione rischia di farci saltare il pianeta. Eppure la ginestra lo è e Leopardi con lei, perché non si nasconde più.
Il pessimismo resta, ovviamente, quello non guarisce mai, ed è ben rappresentato dal paesaggio desolato, nero di cenere e vulcano, nero come lui, come molti di noi, la differenza sta nel fatto di raccontarsela questa verità. Gli uomini in genere preferiscono illudersi, fare finta che vada tutto bene, prediligono le tenebre alla luce di una verità che a volte è davvero schifa.
“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.”
È la scritta in epigrafe che introduce il componimento. Si tratta del Vangelo di Giovanni, ma Leopardi non crede in Dio e quindi l’ammonimento diventa laico: non raccontiamocela, guardiamoci in faccia e diciamo la verità, anche se la verità è terrificante è comunque luce.
Da un lato abbiamo la potenza distruttiva della natura, rappresentata dal vulcano, dall’altra la fragilità dell’uomo, una bellissima ginestra che ha la sola colpa di trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
Ma l’uomo deve abbandonare il suo solito orgoglio e assumere l’atteggiamento titanico di quel fiore straordinario.
“E tu, lenta ginestra,/ che di selve odorate/ queste campagne dispogliate adorni,/ anche tu presto alla crudel possanza/ soccomberai del sotterraneo foco,/ che ritornando al loco/ giá noto, stenderá l’avaro lembo/ su tue molli foreste. E piegherai/ sotto il fascio mortal non renitente/ il tuo capo innocente:/ ma non piegato insino allora indarno/ codardamente supplicando innanzi/ al futuro oppressor; ma non eretto/ con forsennato orgoglio inver’ le stelle,/ né sul deserto, dove/ e la sede e i natali/ non per voler ma per fortuna avesti;/ ma piú saggia, ma tanto/ meno inferma dell’uom, quanto le frali/ tue stirpi non credesti/ o dal fato o da te fatte immortali.”
L’atteggiamento di questo fiore e di ispirazione, è umile e al tempo stesso coraggioso, non si crede immortale, ma non si piega neppure prima che arrivi l’onda infuocata della lava distruttrice, non ha un atteggiamento vittimistico. È capace addirittura di consolare una pendice arida come quella del vulcano con le sue fronde colorate e odorose.
La ginestra è simbolo dell’uomo che non si arrende e, nonostante tutto, non rinuncia a lottare contro una natura che gli vuole male, pur non ignorando la sconfitta, come un perfetto titano romantico.
E così il messaggio di Leopardi diventa etico, civile. Si tratta di un appello all’umanità, perché l’unica cosa che possono fare gli uomini è abbandonare le minchiate e le inimicizie e armarsi tutti insieme contro la natura che ha il solo scopo di far patire tutti quanti.
Ma quel patimento è una compassione, ossia un “patire insieme” e, insieme, si sa, tutto è più facile.
E allora, se anche quel misantropo, stronzo e solitario di Leopardi riesce a ravvedersi e invitare la collettività a fare fronte comune, forse dovremmo ascoltarlo, perché si deve sempre dare retta a chi ha il coraggio di cambiare, specie in tempi come questi in cui il vulcano tende a vestirsi da ginestra.
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