No, non si tratta di un invito all’alcolismo spinto, non intenzionalmente almeno. Questo è un pezzo di Orazio.
“Nunc est bibendum, nunc pede libero/ pulsanda tellus”
Ora bisogna bere, ora bisogna battere la terra con danze sfrenate.
Il motivo di tutta questa baldoria? La vittoria di Ottaviano ad Azio, la sconfitta dei nemici dello Stato.
Procediamo con ordine però.
La Repubblica romana è un casino da un pezzo. Quando Cesare viene preso a coltellate in senato, la situazione si fa ancora più difficile.
Marco Antonio, che a lungo è stato suo luogotenente, crede di avere diritto alla successione, ma allo stesso tempo, il volere di Cesare stesso designava come erede Ottaviano, suo pronipote.
Adesso sì che è un macello.
Dunque Ottaviano a un certo punto prende il potere di Roma, mentre Antonio si mette con Cleopatra, l’ultima grande regina d’Egitto, nonché ex di Cesare.
Ottaviano, dunque, deve far sparire il suo rivale, ma con garbo. Non può passare per il solito prepotente che uccide un altro romano, la Repubblica ne aveva già visti abbastanza.
Aveva bisogno che Antonio passasse dalla parte del torto.
Dunque avvia la prima grandissima operazione di marketing della storia: mette in giro la voce che Antonio è un traditore, che si è accordato con l’Oriente per far diventare orientale anche Roma e trasformare i romani che, per tradizione, sono duri e puri, in uomini molli e senza valori.
Quando la cittadinanza si convince del pericolo, allora la guerra contro Antonio e Cleopatra diventa lecita e ha il suo apice, nonché il suo esito, vittorioso, per Ottaviano, nel 32 a.C., in seguito alla battaglia di Azio.
Allora Orazio è un poeta di corte.
Il che significa che è sovvenzionato dallo stato, protetto da Ottaviano, ma deve rendere onore a Roma e al suo capo di stato se vuole continuare a lavorare.
Dunque un’ode alla grande impresa è d’obbligo per lui.
Inizia così con i festeggiamenti, perché bisogna celebrare questa lieta novella.
L’attacco è una citazione e un omaggio alla maniera dei poeti latini.
L’ispiratore è Alceo che scrive che bisogna festeggiare per la fine del tiranno Mirsilo. Poi però Orazio va avanti per conto suo:
“dum Capitolio/ regina dementis ruinas/ funus et imperio parabat/ contaminato cum grege turpium/ morbo virorum, quidlibet impotens/ sperare fortunaque dulci ebria.”

Scrive di Cleopatra, la regina, quella matta, folle e senza senso, che preparava la rovina del Campidoglio e la distruzione dell’impero. E rinforza i concetti espressi da Ottaviano nella sua campagna d’odio: il popolo egizio non è altro che “quel branco impuro di maschi affetti da turpe morbo”.
Insomma, riassumendo, a paragone dei romani, quelli erano froci.
Non dobbiamo fermarci qui però, perché, ricordiamo, Orazio scriveva agli ordini della corte e, se non era adeguato, poi erano cazzi suoi.
Nonostante questo, nel suo testo troviamo tracce di disobbedienza, ed è la ribellione più alta, quella che si fa con le parole.
Esattamente a metà dell’ode, si rivolge a Cleopatra chiamandola “fatale monstrum”.
Entrambe le parole sono una vox media, il che significa che possono avere significato positivo o negativo a seconda del contesto.
Nello specifico “fatale” può essere “fatale, cioè che ti uccide”, oppure “benevolo, voluto dal fato”, così come “monstrum” può essere “mostro” oppure “prodigio”.
Dunque la traduzione può essere duplice: “mostro fatale” oppure “prodigio voluto dal fato”.
E certo, i romani saranno portati a pensare che Cleopatra non sia altro che un demonio, il male incarnato, ma per chi è più attento si potrà leggere altro. Confermato poi dalla seconda parte dell’ode di Orazio:
“Ma lei desiderando perire/ in maniera più nobile, non temette, come una donna,/ la spada, né riparò con la veloce flotta in lidi nascosti/ avendo il coraggio di guardare la reggia che crollava/ con volto sereno, forte anche nel prendere in mano gli aspri/ serpenti, per sorbire nel suo corpo/ il nero veleno, più feroce/ una volta deliberata la morte:/ naturalmente rifiutando alle crudeli navi liburniche/ di essere condotta come donna privata/ non umile al superbo trionfo.”
Ecco, Orazio, pur essendo schierato nell’altra fazione, per amore o per forza, ha comunque il coraggio di scrivere un’ode in cui, sì, dice che bisogna celebrare questa vittoria, ma bisogna anche rendere onore a una regina fiera, che ha preferito il suicidio, con coraggio – lei infatti è quella che si è data la morte facendosi mordere da un aspide – piuttosto che cadere viva nelle mani dei romani.
E i romani hanno tante qualità, ma sono un popolo di bulli, Orazio non è come la maggior parte di loro e lo vuole far sapere, anche se è rischioso per un poeta nelle sue condizioni.
Dobbiamo sempre rendere onore a persone come lui, anche se non sono combattenti, ma semplici scrittori, perché ci dimostrano che le parole possono essere più importati di quanto immaginiamo.
Ora, tutti a bere!
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