Esser cucinato non è triste

Guido Gozzano era un bel ragazzo, poeta del Novecento, morto troppo giovane.

Ha uno strano senso dell’umorismo e gli piacciono le piccole cose, la campagna, la signorina Felicita, che è la felicità, e poi ovviamente le poesie.

La verità però è che quelli come lui non possono essere felici.

Lui ama le piccole cose per paura delle grandi, Torino per esempio, che in fin dei conti è meglio della campagna, oppure la morte, o il fatto che forse lui, della signorina Felicita, preferisce la nostalgia alla presenza.

E appunto la tubercolosi lo raggiunge a trentadue anni, puntuale, a dargli ragione.

Prima di morire però scrive un sacco di cosine interessanti, tra cui una poesia, che si chiama “La differenza”, la mia preferita.

È un testo che affronto volentieri in classe, per spiegare come spesso, dietro alle cazzate, si celino i pensieri più profondi e a volte pure tossici.

“Penso e ripenso: — Che mai pensa l’oca
gracidante alla riva del canale?
Pare felice! Al vespero invernale
protende il collo, giubilando roca.”

Apparentemente qui si parla di un’oca, dunque, un animale semplice, buffo a volte, che di solito si ricorda solo per la sua presunta stupidità, oltre che per il celebre foie gras.

“Salta starnazza si rituffa gioca:
né certo sogna d’essere mortale
né certo sogna il prossimo Natale
né l’armi corruscanti della cuoca.”

In realtà il testo parla d’altro. Questa bestiola gracida giuliva nello stagno e non ha assolutamente cognizione, né del futuro, né del presente, in cui probabilmente una pentola bolle sul fuoco e la cuoca sta affilando i suoi coltelli.

“Voi ci pensate mai alla morte?” chiedo alla classe.

Ed è una domanda complicata, perché quando sei adolescente la morte è così lontana, ma al tempo stesso non è mai stata tanto vicina nei tuoi pensieri, dacché  ricordi di essere al mondo.

Cala il silenzio.

Qualcuno è scocciato perché la domanda sembra stupida, altri ci riflettono, altri ancora non hanno il coraggio di parlare.

Ad un certo punto, dalle ultime file, si leva un dito al soffitto, ed è quello di J., una montagna di ragazzo, apparentemente impenetrabile, che però non ha paura di raccontarci quel che sente.

“Prof”, confessa, “io ci penso spesso alla morte, ci penso tutti i giorni.”

Ed è serio quando lo dice, grande e piccolo insieme, come il nostro poeta che con questi pensieri si era avvelenato.

Qualcuno però lo interrompe e, senza alzare la mano, aggiunge: “Per forza ci pensi tutti i giorni, tu abiti a Pioltello!”

La classe ride.

Effettivamente fa molto ridere parlare di morte, tutti abbiamo avuto un funerale in cui era impossibile stare seri, è il nostro modo di esorcizzare. Pure J. ride ed io li lascio fare, perché credo che questa gag sarebbe piaciuta molto pure a Gozzano.

“- O pàpera, mia candida sorella,
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s’è pensato.
Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!”

È questo il punto: si muore solo nel momento in cui si pensa di morire.

Mi viene in mente, per restare in tema faunistico, Firmino, il topolino di Sam Savage che vive nella biblioteca di New York e mangia libri.

Evidentemente la cosa deve avergli fatto male, perché lui ha pensieri diversi dagli altri topi.

Ne vede morire decine ogni giorno: il colpo fatale del giornale, lo schiocco delle trappole, il veleno contro i battiscopa, mentre lui, inaspettatamente, continua a vivere. E di contro muore centomila volte, muore ogni volta, muore ad ogni morte di un suo collega roditore.

Essere inconsapevoli? Questa è la soluzione? Essere stupidi in cambio della felicità?

“Chè l’esser cucinato non è triste,
triste è il pensare d’esser cucinato.”

Cazzo, Gozzano sta dicendo che solo gli stupidi sono felici. Oppure che se sei intelligente, se pensi, non puoi ambire alla felicità. In entrambi in casi è un bel pugno in faccia.

Che ne penso io? No posso dirlo, non sarebbe giusto.

Voi però intanto pensateci.

Nel frattempo dirò solo che Gozzano ha sognato ogni notte di essere cucinato e questo non ha cambiato la sua sorte.

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