Barbari

Il termine “barbaros” nasce nell’ antica Grecia, un territorio prevalentemente montuoso dove le comunicazioni erano difficili, non solo perché non c’era ancora whatsapp, ma perché i greci, chiusi nella piccola assemblea della polis, si facevano i cazzi propri. E va bene che la ristrettezza dell’ambiente cittadino ha permesso la nascita della democrazia, ma di fatto la divisione è stata anche causa del tramonto di questa società.  

Ogni polis aveva la propria forma di governo, i propri valori, ecc, ma in una cosa si sentivano tutti simili, quella che allora si chiamava “identità ellenica” e sostanzialmente tracciava un grande cerchio al cui interno c’erano quelli che parlavano il greco, mentre gli altri, quelli fuori, erano i Barbari, ossia i balbuzienti.

I Greci, quelli che hanno cullato la nostra cultura, avevano un atteggiamento un po’ spocchioso nei confronti di questi Barbari, considerati stranieri unicamente sulla base della lingua che parlavano.

Ed è strano pensare che una lingua – che per definizione non appartiene a nessun posto specifico, ma riguarda solo le persone che parlano – possa definire i tuoi diritti.

I Romani invece, popolo di bulli, si sa, avevano l’abitudine di conquistare popoli, stabilirsi sul loro territorio e imporre il latino. Avevano un sacco di confini sacri, invalicabili, ad esempio il limes sul Reno e il Danubio che li separava dai loro naturali vicini di casa: le popolazioni germaniche che, per inciso, non volevano invadere nessuno, ma cercavano di migrare dentro l’impero, terrorizzati dalle razzie degli Unni. Ai Romani però non interessava, per loro i Barbari erano tutti gli stranieri, Germani, Unni, Persiani, tutti quelli che non parlavano sto cavolo di latino.

Che  poi, anche quando imponevano una lingua, i popoli conquistati facevano il cazzo che pareva loro. Ormai sappiamo bene che una lingua non si può prescrivere a nessuno. Questi popoli infatti credevano di parlare latino, ma di fatto parlavano una lingua tutta loro che impastava l’idioma originale con quello dei conquistatori. È proprio da questo mix che, dopo il crollo dell’Impero d’Occidente, nascono le lingue romanze.

Il latino si spacca in mille pezzi e, col tempo, non ne resta nulla o quasi, oltre alle versioni del liceo classico.

Il volgare intanto prende piede in vari territori e ambiti, pure la letteratura comincia a usare queste lingue nuove, libere dalle imposizioni e dal terrore.

Il latino resta a galla ancora un po’ come lingua internazionale, per capirsi in Europa per lo più, nel settore scientifico e poco altro.

Intorno al ‘700 il latino viene sostituito dal francese come lingua comune e più avanti dall’inglese.

L’inglese prende piede soprattutto durante gli anni della Resistenza e poi nel dopoguerra. L’inglese è la lingua della liberazione, quella che si oppone a tutti i totalitarismi.

I tiranni da sempre hanno paura di tutto ciò che ispira libertà, scelta. Mussolini, per esempio, da bravo dittatore, grida e impone, con la scusa di difendere tutto quello che è italico e romano (ignorando forse, tra l’altro, che pure Roma è stata fondata da uno straniero, un troiano migrante, in fuga da una guerra, ma questa è un’altra storia).

Molti scrittori del ‘900 conoscono bene l’inglese e traducono i versi di Marlowe, Blake e Melville di notte, chini sul loro scrittoio, sempre in fuga, perché sono Partigiani, sono ricercati.

Uno di questi si chiama Beppe Fenoglio e lotta contro il nazifascismo non solo come partigiano, ma scrivendo un libro in cui mescola italiano e inglese, facendo tutto ciò che fa arrabbiare un fascista, sporcando ossia l’italico idioma con i suoni di chi ha cacciato i fascisti dal sud Italia, creando neologismi, nonché una prosa unica nel suo genere.

“Il partigiano Johnny” ha una vicenda editoriale abbastanza complicata, ma l’inglese intanto prende sempre più piede, come altri forestierismi (così si chiamano i prestiti linguistici da altre lingue).

Oggi, nell’italiano per esempio, ce ne sono moltissimi. Vengono utilizzati abitualmente, in tutti gli ambiti.

Non sto parlando solo della ragazzina che urla al telefono “Amo, che cringe!”, ma di espressioni di tutti i giorni come tornado, bidet, standby, gate, vernissage, weekend, evergreen, brioche, fard.

Ecco, ultimamente si sente dire che bisognerebbe sanzionare chi usa in ambito amministrativo i forestierismi, ovviamente per preservare l’integrità della patria, come ai bei tempi.

Forse questa proposta è così scema che non meriterebbe neanche attenzione, ma al tempo stesso è preoccupante il fatto che non sia stata accolta con una sonora risata e basta, perché si tratta di una questione di libertà, quella offerta non solo da una lingua, ma dall’impasto straordinario di tutte le possibilità linguistiche.

È inutile, non impariamo mai nulla. Non dai Greci che prendevano per il culo gli stranieri perché non parlavano la loro lingua, non dai Romani che avevano inventato l’espressione “dividi et impera” e sulla base linguistica segnavano il destino di interi popoli.

Non sono state le parole straniere ad abbattere gli imperi, ma l’atteggiamento ottuso degli imperatori.

Amo profondamente la lingua italiana, ma di più ancora amo la libertà. E, non a caso, sono Barbara, straniera sempre, soprattutto quando i miei connazionali si danno tanta pena di tracciare confini, alzare muri.

Le lingue non sono una barricata, ma una possibilità per tutti.

2 risposte a “Barbari”

  1. Splendido excursus nell’uso della lingua…
    Brava “Barbara”, libera e geniale come sempre

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  2. mi piace il tuo stile irriverente e giovanile. scommetto che sei una bravissima prof. anche io insegno lettere.

    Piace a 1 persona

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