Principessa di eroismo, di sfiga, di accusativo alla greca

Nella letteratura, Ermengarda è uno dei miei personaggi preferiti.

Non me lo so spiegare.  Noi siamo così diverse: lei, così cristiana, così pura nei suoi intenti… io, poi,  non mi sarei mai innamorata di quel carciofo narcisista di Carlo Magno.

Ermengarda è realmente esistita. Era una principessa longobarda bella e sventurata, come tutte le migliori principesse.

Il suo vero nome non era Ermengarda, ma Desiderata.

È Manzoni che glielo cambia, innanzitutto perché lei, tra quelle che conosco e amo, forse è una delle meno desiderate, e poi perché probabilmente quello era solo un patronimico: figlia di re Desiderio, dunque cancellata pure dalla storia, dimenticata in quanto sprovvista di un nome anagrafico.

Adelchi, il fratello di Ermengarda, è un altro eroe romantico sfortunato, ma, nella classifica della sventura, si colloca una posizione avanti a lei.

Manzoni almeno dedica a lui il titolo di una tragedia. I cruciverba odierni, poi, lo nominano spesso: 7 verticale = Adelchi lo era di Carlo Magno. [La risposta corretta, per la cronaca, è “cognato”]

Forse proprio per questo mi piace Ermengarda, perché riesce ad essere la numero due perfino nella sfiga, combattuta sempre tra verità e ideale, destinata ad essere sola, sola, sola, in un mondo che non è fatto per lei.  

Manzoni, appassionato di Vero Storico, racconta ancora una volta una vicenda in cui la Storia colpisce persone che cercano invano di fare la cosa giusta, mentre la forza della corrente, inesorabile, trascina tutti quanti a fondo.

La tragedia è ambientata nel medioevo.

Desiderio, re dei Longobardi, vuole estendere il suo dominio ai territori della Chiesa in Italia. Il Papa ovviamente si incazza e chiede aiuto a Carlo Magno, re dei Franchi e amichetto da sempre della Chiesa.

Adelchi, il figlio lungimirante di Desiderio, prova inutilmente a far ragionare il padre, mentre Ermengarda, l’altra figlia, che può fare? Nulla, dato che lei è anche l’ex moglie di Carlo Magno, il nemico: viene appunto ripudiata all’istante per ragioni politiche.  

Una storia di potere e una gara a chi ce l’ha più lungo, insomma, competizione da cui, per ovvie ragioni, Ermengarda risulta esclusa, ma non illesa.

Mentre la guerra e i colpi sghembi della sorte tartassano personaggi reali e fittizi, Ermengarda, con il cuore a pezzi, si rifugia dalla sorella, in un convento a Brescia. Lì giura a tutti, ma soprattutto a se stessa, di essersi dimenticata dell’ex stronzo. Perché, si sa, il dolore altrui dopo un po’ annoia, o forse lei ha bisogno di proteggersi, convincendosi che il peggio ormai sia passato.

Ed è proprio qui che Manzoni non molla, perché mette in luce tutte le strategie di autoinganno dell’animo umano (in netto vantaggio sui tempi, direi).

Ermengarda scopre delle nuove nozze di Carlo, così, stremata, muore letteralmente di dolore.

E per Manzoni questa morte è una fortuna: “te collocò la provida | sventura in fra gli oppressi”.

Lei, nata tra i cattivi, tra gli oppressori, grazie a questo dolore, può finire cristianamente nella schiera degli oppressi, dei sofferenti, degli umili. Magra consolazione ma, si sa, la sofferenza purifica e redime fin dall’anno zero.

Ermengarda è molto meglio di Lucia (quella dei Promessi Sposi) perché, anche se entrambe sono sottoposte alle bizze del destino e di un mondo tutto maschio e, anche se la seconda è stata nel tempo rivalutata, Ermengarda ha a che fare con un amore che, per sua stessa definizione, è tremendo.

Tremendo non solo perché la fa soffrire, ma perché si configura come una forza devastante che va oltre ai suoi principi, che la fa diventare pazza e meno cristiana, che la allontana da Dio (e nel medioevo, fidatevi, essere distanti dal Signore è un vero problema).

“Amor tremendo è il mio. | Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora | non tel mostrai; tu eri mio: secura | nel mio gaudio io tacea; né tutta mai | questo labbro pudico osato avria | dirti l’ebbrezza del mio cor segreto.”

Lucia, almeno da quel punto di vista, è in salvo, tanto che, da brava credente, è disposta a rinunciare al suo amato Renzo pur di rispettare il voto fatto.

Ermengarda invece muore male da innocente, okay, ma non è innocente come un agnello che si incammina verso il mattatoio, o almeno non solo: lei si permette si sbroccare contro l’ingiustizia da cui è colpita. Contro la solitudine e l’alienazione a cui è costretta. E in questo sta la sua grandezza.

Manzoni in cuor suo lo sa e, seppur di solito così pacato, per una volta lascia scorrere sulla pagina scoppi d’ira e passioni moleste.   

Se io e lui abbiamo una cosa in comune (anche se per ragioni diverse), questa è stare sempre dalla parte del più sfigato di tutti, dell’ultimo. Ammiro il coraggio quotidiano di chi continua a fare, di chi resiste e basta, anche se non compie mai nessuna azione eroica vera e propria.

Non è un caso se, proprio alla morte di Ermengarda, sono dedicati alcuni tra i versi più belli che io conosca:

“Sparsa le trecce morbide | su l’affannoso petto, | lenta le palme, e rorida | di morte il bianco aspetto, | giace la pia, col tremolo | sguardo cercando il ciel”.

La prima cosa che salta all’occhio è che quello “sparsa” non dovrebbe essere concordato con “la pia” (cioè Ermengarda), ma dovrebbero esserlo le sue “trecce” (come ci suggerisce invece il senso).

Si tratta di una scelta parecchio insolita. E poi ancora: “trecce morbide” sembra un complemento oggetto che dipende da “sparsa”, ma in realtà non lo è, si tratta di una specie di complemento di limitazione senza preposizione. Cioè un casino.

E se vi siete persi (o sparsi pure voi) non vi preoccupate.

Questa scelta si chiama “accusativo alla greca” e secondo me si usa solo con chi hai nel cuore.

Un procedimento del genere è una bomba nella frase: ne scardina il senso e anche la logica e nulla sembra funzionare più.

E invece il miracolo è proprio che tutto funziona benissimo lo stesso, anzi, anche meglio di prima.  

Perché l’accusativo alla greca racconta bene, più di ogni altra cosa, la forza della nostra eroina, una, davanti alla quale, pure la grammatica si ferma e le lascia spazio per passare, facendole persino una riverenza.

                                                                               

Una replica a “Principessa di eroismo, di sfiga, di accusativo alla greca”

  1. A cercare questo “accusativo alla greca” mi hai dato modo di imparar qualcosa, pieno le velleità letterarie mie 🙂

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