“Silvia, rimembri ancora/ quel tempo della tua vita mortale,/ quando beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,/ e tu, lieta e pensosa, il limitare/ di gioventù salivi?”
Quando interrogo su questa poesia, di solito, la prima cosa che mi dicono è che “salivi” è l’anagramma di “Silvia”. Il che è originale e sorprendente, certo. E poi resta ben impresso in mente. Ma non è tutto.
La seconda cosa che mi dicono è che Silvia è un personaggio realmente esistito, che corrisponde alla figura di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi. E Giacomino, come una specie di stalker, era innamorato di lei e la guardava dalla finestra, perché Leopardi non era capace di provarci.
E l’ha guardata e riguardata finché alla fine non l’ha consumata e lei muore a 24 anni, per colpa della tisi che, nell’800, ammazza anche più frequentemente della mafia.
Questo accade perché siamo troppo propensi al gossip: ci chiediamo chi amasse questo o quell’altro poeta, come se le pagine della letteratura italiana fossero una specie di “Chi” ante litteram.
Il punto è che io non so se Leopardi fosse veramente innamorato di lei e non glielo posso chiedere. So solo che la morte prematura di questa ragazza diventa un pretesto, per il poeta del pessimismo, per parlare anche di sé.
“Io gli studi leggiadri/ talor lasciando e le sudate carte,/ ove il tempo mio primo/e di me si spendea/ la miglior parte.”
Teresa, alias Silvia, muore il 30 settembre 1818, ma Leopardi aspetta dieci anni a scrivere di lei. All’epoca lui aveva una trentina d’anni e, considerando che, nel giro neanche di un decennio, lui sarebbe morto a sua volta, quello sembra il tempo giusto per fare dei bilanci.
Del resto i trent’anni sono la prima età spaventosa. L’epoca in cui cominci a fare i conti e a sentirti vecchio. Io, quando ho compiuto trent’anni, scontrosa e incazzata, non ho voluto parlare con nessuno per tutto il giorno.
Non mi stupisco se a trent’anni, a Leopardi, torna in mente quella Silvia là.

Il problema qui in ballo è che morire è molto triste, ma morire giovane fa davvero schifo. E Leopardi lo sa, lo sappiamo pure noi.
Dunque questa non è una poesia d’amore, piuttosto è una poesia di sfiga.
Qui c’è tutto il dolore per una vita spezzata troppo presto, per una giovinezza che non è stata davvero vissuta, anzi, due giovinezze.
Gli indizi ci sono tutti, una descrizione di lei generica e immateriale, Silvia si presenta “lieta e pensosa”: caratteristiche banali che non ci fanno dire “ammazza che gnocca questa Silvia, voglio assolutamente passare del tempo con lei”. E poi la sua beltà non ha nulla di speciale, risiede ancora una volta negli occhi, “ridenti e fuggitivi”, cantati non per qualche merito particolare, ma solo perché sono giovani.
“il limitare/ di gioventù salivi”.
Questo ci fa pensare che Silvia, più che una persona in carne e ossa, sia un simbolo, la rappresentazione esemplare di quanto a volte siano vani tutti i progetti che facciamo quando siamo giovani.
A sostegno di quanto appena affermato, giungono anche le strofe successive, in cui il poeta, in maniera alternata e simmetrica, paragona due situazioni affini: da una parte Silvia che continua a vivere la sua vita umile e a svolgere le faccende quotidiane, non sapendo ancora che il suo destino sarà quello di morire giovane, d’altra parte la miseria di Giacomino, i suoi studi giovanili, nei quali si consumavano le sue forze e i suoi anni migliori.
Silvia morirà prima di vedere il fiore dei suoi anni, allo stesso modo le speranze del poeta moriranno prima che la sua giovinezza finisca.
“Quando sovviemmi di cotanta speme,/ un affetto mi preme/ acerbo e sconsolato,/ e tornami a doler di mia sventura./ O natura, o natura,/ perché non rendi poi/ quel che prometti allor? perchè di tanto/ inganni i figli tuoi?”
Leopardi ha passato un sacco di tempo guardando il muro e poi studiando e scrivendo e facendo tutto ciò che l’avrebbe reso straordinario.
A volte però neanche essere straordinario basta, non se hai un buco nel cuore della stessa forma che avevano i tuoi progetti quando eri un ragazzino.
“Questo è quel mondo? Questi/ i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi/ onde cotanto ragionammo insieme?/Questa la sorte dell’umane genti?”
Di fronte a questa tremenda ingiustizia, Leopardi, pur non abbandonandosi del tutto a un destino ineluttabile, si chiede soltanto se questo è davvero il mondo che lui e lei avevano sognato insieme. Non insieme per davvero, ma da due finestre dirimpetto, in mezzo alle quali ora restano solo tutte le loro illusioni spezzate: Silvia dentro a una bara ormai da un pezzo e Giacomo con la sua speranza che negli anni si spegneva piano piano, proprio come lei.
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