Laura non c’è

Ve la ricordate Laura?

Non quella di Nek, ma quella di Petrarca, cantata per i suoi capelli dorati e per il suo atteggiamento scostante. Per lei solo parole chiare, piane. In suo onore un nuovo modo di fare poesia, quasi una corrente letteraria, il Petrarchismo.

Anche una volta passato il Medioevo, Petrarca continua ad andare di moda e i suoi successori, che vogliono scrivere d’amore, lo imitano.

Così per duecento anni circa, gli scrittori evocano in serie donne tutte identiche, sorelle gemelle dell’unica originale: Laura, appunto.

Poi arriva il ‘600.

Il ‘600 è una grossa crepa nella linea del tempo.

Infatti un tizio di nome Galileo Galilei, guarda dentro a un cannocchiale, un “occhiale”, come lo definisce lui che l’ha inventato, e scopre un sacco di cose che fanno tremare le ginocchia all’umanità intera: la luna ha una faccia butterata di crateri, la Terra non è sferica, ma a forma di ellisse, ma soprattutto è lei a girare intorno al sole e non viceversa.

È il panico.

D’un tratto gli uomini si rendono conto di non essere così speciali, ma di costituire solo un puntino insignificante nell’immensità dell’universo, per la prima volta infinito.

Questa scoperta ha ripercussioni in tutti i settori, pure nell’arte: cambia la prospettiva nei dipinti e nell’architettura, compaiono un sacco di teschi, lancette, ruote dentate e pure la letteratura non è più la stessa.

Proprio questa frattura lascia lo spazio per l’affermarsi di un nuovo modo di pensare che è espressione del disagio.

È l’epoca del Barocco, una corrente di arte, scienza, scrittura e pensiero che si diffonde in tutta Europa.

Anche oggi, nella sua etimologia più comune, questa parola ci fa venire in mente qualcosa di caotico e pacchiano, fuori dalle regole, insomma.

Ben si adatta a questo nuovo modo di pensare il lavoro di un bello guaglione napoletano, di nome Giambattista Marino, e dei suoi successori, i marinisti.

Soprattutto questi ultimi si rifiutano di pensare in maniera convenzionale. Con loro la letteratura diventa degenere perché si distacca in maniera traumatica dall’armonia celebrata nel Rinascimento.

Il nemico principale dei marinisti è Petrarca e il suo modo di far poesia, ma non solo. Di Petrarca loro contestano anche la concezione dell’amore. Dunque ne mettono in evidenza aspetti che Francesco non aveva considerato, come ad esempio la sessualità o l’attrazione per il brutto, per il malato.

Le donne cantate dai marinisti non hanno né eleganza, né equilibrio, ma molto spesso sono pazze e cesse, diciamolo.

La donna di Anton Maria Narducci, per esempio, non ha i capei d’oro sparsi, ma in compenso ha i pidocchi.

“Sembran fere d’avorio in bosco d’oro/ le fere erranti onde sì ricca siete;/ anzi, gemme son pur, che voi scotete/da l’aureo del bel crin natio tesoro/”

I pidocchi che infestano il capo della donna amata sono dei gioielli d’avorio che vagano, errano per i capelli unti, come i cavalieri nella letteratura rinascimentale.

La tipa con cui esce Achillini invece bestemmia in chiesa:

“Lidia traluna gli occhi e tiengli immoti,/ e mirano i miei lumi a lei devoti/ fatto albergo di Furie un sí bel viso./ Maledice ogni lume errante e fiso/ e par che contra Dio la lingua arroti./ Che miracolo è questo, o sacerdoti,/ che Lucifero torni in Paradiso? […]”

Giovan Leone Sempronio si trova a lodare la sua fidanzata claudicante:

“Move zoppa gentil piede ineguale,/ cui ogni altra è ineguale esser bella”.

E se state pensando che voi questi poeti non li avete mai sentiti nominare, vi confido che a un certo punto ci si è messo pure Shakespeare, sì, l’illustre:

“My mistress’ eyes are nothing like the sun;/ Coral is far more red than her lips’ red;/ If snow be white, why then her breasts are dun;/ If hairs be wires, black wires grow on her head.”

Insomma gli occhi di questa ragazza sono spenti, così come le sue labbra, i suoi seni sono grigi e in testa ha delle specie di punte di carciofo, nere e ispide.

Non sto dicendo che questi scrittori facessero del body shaming ante litteram, anzi. Le donne, così descritte, pur nella loro miseria e bruttezza, sono più apprezzabili di qualsiasi Laura, perché, a differenza di lei, sono vere.

La verità è che tutti noi sogniamo di essere e/o avere Laura, perché è ideale, è esattamente come dovrebbe essere.

Alla fine però non ci innamoriamo mai di ciò che dovrebbe essere.

E scambieremmo tutte le Laure immaginate pur di avere accanto lei che invece c’è, esiste. E se è zoppa, poco importa perché, come dice Sempronio, sarà solo che si è fatta male cadendo dal Cielo:

“E certo questa dea, se il ver m’avviso,/ solo il tenero pie’ si torse a l’ora/ ch’ella precipitò dal paradiso.” 

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