Sei alle elementari, stai facendo analisi grammaticale, tra poco la campanella suonerà e tu potrai tornare a casa a guardare Dragonball. Va tutto bene. O almeno è quello che tu credi. Perché, lungo le ciclopiche colonne di parti del discorso da analizzare, spunta un CHE maledetto.
Che cos’è il CHE?
Bella domanda, spesso senza soluzione. Non c’è maestra dalla penna rossa che ti illumini, tu, per qualche ragione, non lo ricorderai mai, neanche se te lo scolpiscono nel cervello.
È solo un monosillabo un po’ scemo che trovi dappertutto, che ti potrebbe entrare anche in tasca, ma perché nella testa invece proprio non ci sta?
Sì, è vero, il CHE è un po’ una maledizione e la ragione è molto semplice: non ce lo ricordiamo perché può avere diverse funzioni.
Cominciamo dal valore più innocuo, ossia quello di congiunzione.
“Ti ho detto che devi piantarla.”
Qui il CHE fa solo da ponte tra due frasi, le tiene insieme, magari dà loro una qualche inflessione, soggettiva, oggettiva, dichiarativa e, se vogliamo proprio, altre ancora: le vie del CHE, come quelle del Signore, sono infinite. Non importa però quale sia (almeno finché non arriva l’analisi del periodo), perché di per sé questo CHE non ha un significato pieno. È una parola vuota, tipo i ganci che tengono insieme i vagoni di un treno.
Diverso è invece il caso dell’aggettivo interrogativo: “Che lavoro fai?” o aggettivo esclamativo “Che lavoro fai!”. In questi casi il CHE accompagna il nome e lo modifica. La cosa peggiore è che per scoprire la sua vera natura dobbiamo aspettare la fine della frase: sarà il segno di punteggiatura a dirci se stiamo domandando o prevaricando.
Stesso discorso per quando il CHE è pronome interrogativo o esclamativo.
“Che fai?” o “Che fai!”, identico il gioco della punteggiatura, diverse invece le categorie: il CHE è un pronome perché non c’è traccia di un sostantivo, lui lo sostituisce.
Mi piace un sacco però, devo ammettere, sopratutto il CHE vestito da pronome relativo.
“Ho visto Gigino che rubava una bicicletta.”
Ecco un CHE con un doppio compito: mette in relazione le due frasi, un po’ come fa la congiunzione, tiene il piede in una e poi si presenta nell’altra saldo, importante e pieno di significato. Il Gigino che ho visto nella prima frase riemerge nella seconda come un perfetto scassinatore di bici, anonimo, grazie al CHE, il suo sostituto.
Non è finita qui, però.

Pazzesco. Con tutte le possibilità di usare il CHE in funzioni diverse, noi parlanti optiamo spesso per quella accessoria, ossia lo usiamo a cazzo.
In realtà è proprio quest’ultimo il mio valore preferito: il CHE polivalente, così si chiama.
Si tratta di un fenomeno complicato della grammatica, per lo più classificato come errore, ma amato da molti e frequentato anche da scrittori illustri.
In sintesi consiste nel mettere il CHE in posti in cui non dovrebbe stare, o dargli significati che di fatto non ha, specie nel parlato, per questioni di rapidità di metrica o anche – perché no? – di bellezza e basta.
“Maledetto il giorno che ti ho incontrato”, frase che ho trovato appropriata in più di un’occasione, nonché film divertente con Verdone e la Buy.
In questa frase il CHE non dovrebbe esserci, prende il posto, in malo modo, di un altro pronome relativo, ossia IN CUI. Non si tratta però solo di una questione di economia della frase (come dico sempre), ma anche di carattere, diciamo. Il CHE richiama un’inflessione del parlato, più colloquiale, forse bassa, ma il modo perfetto di esprimere la rabbia di un’affermazione del genere e la vicinanza al tempo stesso con la persona a cui si sta parlando. Meraviglioso, caldo e brutale.
Gli esempi potrebbero essere molti altri che vanno da Calvino a Vasco Rossi a Verga, o al mio vicino di casa.
Tutti lo usano, insomma, e sapete che vi dico? Il polivalente è l’unico caso che mette d’accordo tutti: quel CHE non dovrebbe stare lì, ma quanto ci sta bene.
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